La sindrome del “latte del dolore” (titolo originale) è un motivo ricorrente nella mentalità popolare sull’altopiano peruviano e si riferisce alla paura nei confronti dell’uomo, che numerose ragazze, nate in seguito a stupri commessi negli anni Ottanta, hanno ereditato dalle loro madri. In quel periodo, infatti, imperversò un conflitto interno con migliaia di vittime e, in particolare, furono perpetrate violenze contro i civili da parte dei guerriglieri maoisti. La regista, la trentaduenne Claudia Llosa, ricorda la propria infanzia sullo sfondo di quegli eventi foschi e la protagonista, Magaly Solier, rammenta i racconti delle donne del suo villaggio. Il film, nato dal loro desiderio di evocare la storia di una di quelle ragazze, ne mostra il lento percorso di liberazione dai turbamenti provenienti dall’inconscio.
Originale è il modo scelto dall’autrice per presentare quel dramma interiore, non più correlato alla realtà esterna, cambiata negli ultimi anni. Ha adottato una dimensione immaginaria ed ha utilizzato, per comunicare sentimenti nascosti, cantilene improvvisate, simbolismi poetici e contrapposizioni di colori vivaci. È riuscita, così, grazie anche all’ottima interpretazione della Solier, silenziosa e tesa, ad evocare una personalità drammatica, ricca di sfumature.
Notevole importanza ha l’ambiente, davvero caratteristico. Sono evidenziati la bontà di fondo degli oriundi, la componente magica delle categorie popolari, l’accostamento di moderno e ancestrale. È messa in rilievo la tradizione di una concezione naturale della sessualità, grazie ai numerosi e festosi matrimoni. La semplicità di vita nella povertà si contrappone a quella nella metropoli, ricca, eppure meno serena. E la violenza bellica e lo stupro risultano qualcosa di totalmente estraneo alla voglia di vivere, illustrata con equilibrio e sensibilità al femminile.
Regia di Claudia Llosa; con Magaly Solier, Susi Sanchez, Efrain Solis, Marino Ballon, Antolin Pietro.