Il cambio di rotta dell’Europa secondo Draghi

Alcune note sulle proposte del rapporto dell’ex governatore della Bce sul futuro della competitività europea. Vanno inevitabilmente oltre l’ambito economico per coinvolgere il livello politico delle scelte. Urgono forti investimenti e cambiamenti strutturali in settori decisivi come quello militare e delle fonti rinnovabili
Conferenza stampa sul futuro della relazione sulla competitività dell'UE a Bruxelles. (Foto Ansa, EPA/OLIVIER HOSLET)

Sono passati i tempi in cui i paesi europei spadroneggiavano negli altri continenti grazie al controllo quasi esclusivo della scienza e della tecnologia, non contrastati da altri se non dai propri vicini al di là del Reno, dei Pirenei o della Manica.

Forse è proprio l’orgoglio di quel passato, insieme all’idea di nazione che lo ha accompagnato, a impedirci di collaborare davvero con gli altri Paesi dell’Unione. E così preferiamo – noi tutti, o i nostri politici? – tenerci strette a livello nazionale le nostre competenze decisionali, a dispetto della dimensione globale delle sfide a cui dobbiamo dare risposta. In tal modo si allarga la distanza che ci separa dai due Paesi leader.

Prendiamo le nuove tecnologie: all’Europa va solo il 6% dei finanziamenti per le start-up di intelligenza artificiale, mentre agli Stati Uniti va il 61% e alla Cina il 17%. Per l’informatica quantistica le percentuali non sono molto diverse (5% per l’Europa e 50% per gli Stati Uniti). Le ragioni sono molte.

Una è che il sistema finanziario europeo stenta a impegnarsi in progetti ad alto rischio ma potenzialmente rivoluzionari, come quelli che hanno decretato il successo della Silicon Valley californiana. Ancora, i brevetti che escono dalle ricerche delle nostre università – non pochi, anche se meno numerosi che in USA – non hanno un’applicazione altrettanto rapida nel mondo delle imprese.

Su tutti questi aspetti può avere un impatto un’azione congiunta da parte dell’Unione Europea, ma la manifestazione più evidente della mancanza di collaborazione è la moltiplicazione delle normative. Fa pensare il rapporto che il numero di autorità di regolamentazione che hanno competenze in fatto di reti digitali negli Stati membri dell’Unione è 270. Si tratta di una barriera quasi insuperabile per un nuovo prodotto informatico che cerchi clienti nell’intero mercato europeo, e che da lì voglia poi proporsi a tutto il mondo.

Considerazioni analoghe valgono in fatto di energia, dove l’Europa si era conquistata una posizione di leadership nelle rinnovabili. Ora però sta perdendo posizioni a favore della Cina, che ha investito cifre enormi su tutti gli anelli della catena: l’estrazione dei minerali rari, la produzione di batterie, l’istallazione di quasi 4 milioni di colonnine di rifornimento per le auto elettriche.

Anche gli USA, voraci consumatori di combustibili fossili, godono ora di forti incentivi per passare a tecnologie più sostenibili. Un aspetto non secondario per accelerare la riconversione energetica europea sono le reti di trasporto all’interno dell’Unione dell’energia elettrica prodotta nelle zone più adatte all’eolico o al fotovoltaico, o dell’idrogeno verde. Anche qui un grande impulso può venire da progetti a livello continentale promossi e finanziati dall’Unione, che possono farci guadagnare anni preziosi, non solo a beneficio dell’atmosfera, ma anche per mantenere la leadership tecnologica.

In questo, come pure in vari altri ambiti descritti nel rapporto, il fatto che ogni Stato continui a legiferare da solo ostacola il coordinamento degli interventi. Eppure – questo è un mio commento – in Italia si discute esattamente del contrario: di una legge sull’autonomia che vorrebbe frazionare le competenze in materia di ricerca scientifica e tecnologica, di energia, di grandi reti di trasporto, passandole dallo Stato alle regioni. È come se la giurisdizione sui problemi idrogeologici del Po, anziché far capo ad un’unica Agenzia (come per fortuna oggi avviene), fosse affidata alle quasi trenta province del bacino del fiume.

Merita ricordare, a questo proposito, che il principio di sussidiarietà, spesso invocato per portare certe decisioni dal livello europeo a quello dei singoli Stati, o da questi alle amministrazioni locali per avvicinare il potere di decidere ai cittadini, dice anche che altre decisioni è bene invece spostarle ad un livello più alto, se quest’ultimo è in grado di svolgerle meglio (il che si verifica, tipicamente, quando il territorio interessato è più ampio di quello delle circoscrizioni di livello inferiore).

Oltre a sostenere che un ampio insieme di interventi sia progettato e coordinato al livello dell’Unione, anziché a quello dei singoli Stati, il rapporto invita anche a fare di più. Dal 2010 i nostri investimenti produttivi sono sistematicamente inferiori rispetto a quelli USA: circa un decimo in meno, una differenza che, protraendosi nel tempo, ha creato un divario significativo tra le dotazioni di capitale produttivo delle due economie.

La proposta di Draghi per recuperare il distacco è di accrescere gli investimenti di 750-800 miliardi di euro all’anno, una cifra enorme (pari, per la cronaca, a circa quattro punti e mezzo di PIL). La sfida è grande per il sistema finanziario dell’Unione, ancora poco integrato tra i Paesi membri. Per questo il rapporto propone la creazione di una vera e propria Unione dei Mercati dei Capitali, con un’unica autorità di regolazione dei mercati mobiliari, regole comuni per gestire i casi di insolvenza e una vigilanza unificata almeno per le banche di dimensioni continentale.

Un secondo ostacolo, evidente, è il grande impegno richiesto al bilancio dell’Unione. Qui si chiede prima di tutto un riorientamento della spesa verso le finalità che il rapporto considera più strategiche, e poi suo un aumento assoluto, da finanziarsi in parte con debito comune. Il maggior investimento, infatti, dovrebbe venire in gran parte dai privati, ma a sostenerlo e indirizzarlo dovrebbero contribuire importanti incentivi pubblici.

Si comprende subito che le proposte del rapporto Draghi sconfinano immediatamente dall’ambito economico per coinvolgere quello politico. Attuare un progetto di questo ammontare, o anche solo della metà, significherebbe fare un bel passo in più nel processo di unificazione del continente. Per riuscirci, sarebbe necessario adottare procedure che permettano di superare i veti di piccole minoranze, cosa peraltro possibile all’interno di quanto previsto dai trattati, compresa la possibilità che un sottoinsieme dei 27 gruppo di Stati realizzi una “cooperazione rafforzata” (ossia proceda lasciando fuori i Paesi che non vogliono partecipare al progetto).

Un passo a mio avviso auspicabile, ma che certo non trova tutti d’accordo, come è apparso chiaro dalle reazioni dei gruppi politici euro-riluttanti, come pure di importanti Paesi (Germania compresa), timorosi di dover pagare da soli il conto di tutto ciò. Aggiungo che il rapporto sottolinea che la fattibilità delle proposte necessita di un passaggio per un controllo democratico, in particolare del Parlamento Europeo. Un altro tema politicamente delicato è che uno degli ambiti del rapporto è quello militare. Qui la condizione in cui oggi ci troviamo – una spesa complessiva seconda solo a quella degli USA, ma facente capo a 27 diversi centri di comando, con il risultato di una domanda disomogenea frammentata in tipologie d’arma troppo numerose e attinte in grandissima parte fuori dell’Unione – è chiaramente molto inefficiente.

Quanto alla produzione interna, da cui pure dipende la sicurezza in situazioni di minaccia, la rapidissima evoluzione tecnologica richiederebbe una maggiore collaborazione tra i Paesi membri in modo da concentrare la spesa in ricerca e innovazione su un numero limitato di progetti condivisi, sostenuti dalla garanzia di volumi certi di domanda indirizzata su di essi. Per chi, come me, non pensa a un disarmo unilaterale (mentre auspica trattati di riduzione multilaterali) il superamento dell’attuale mancanza di coordinamento tra le forze armate – e le iniziative di politica estera – dei Paesi europei è cosa desiderabile, anche per ridurre la nostra irrilevanza, resa evidente nelle tragiche vicende ucraina e mediorientale.

Un altro importante aspetto politico che il rapporto non dimentica di toccare è il mantenimento di alti standard di servizi di cittadinanza (scuola, sanità, protezione sociale…), punto di forza del modello europeo rispetto a tutti gli altri. Condizione necessaria perché ciò sia possibile sarebbe l’aumento di produttività, quindi del PIL, ottenuto proprio grazie alla realizzazione dei vari progetti di coordinamento, razionalizzazione e investimento. Il rapporto, in linea con l’ortodossia economica, dà del tutto per scontato l’obiettivo della crescita e lo vede possibile proprio grazie alla prevista maggior competitività (parola chiave del rapporto) assicurata dai nuovi investimenti. La sua crescita non mancherebbe di portare i frutti di «aumento nel tenore di vita» (p. 10 del rapporto Draghi), ovvero, più semplicemente, non farebbe perdere agli europei «l’opportunità di diventare più ricchi» (p. 4).

Si tratta di un’opportunità che resta preziosa, e urgente, per le fasce di popolazione più sfavorite. Tuttavia è qualcosa che non possiamo più permetterci quando si pensa a delle fasce di reddito medio-alte. La devastazione dell’ambiente naturale a cui ci ha portato la prassi economica corrente non consente di accettare acriticamente le regole del grande gioco della crescita economica nel quale ci vediamo, superati e distaccati da USA e Cina, e lì dentro intenti a cercare di guadagnare posizioni. Nel rapporto non manca un’attenzione ai temi ambientali, ma la preoccupazione principale sembrano essere le prospettive del nostro sistema produttivo nel nuovo scenario di decarbonizzazione.

Non vorrei imputare a questo solo documento l’assenza di quei messaggi di allarme che la drammaticità delle prospettive ecologiche richiederebbe. La stessa assenza si ritrova nei messaggi della gran parte delle voci istituzionali, pubbliche e private, che non ci dicono, ad esempio, che per la “decarbonizzazione” non basta passare alle auto elettriche, perché queste comunque per essere prodotte e alimentate assorbono grandi quantità di energia in gran parte ancora prodotta da fonti fossili, il cui impiego è ancora in crescita a livello mondiale. Non è facile riformare le regole del gioco, tanto più quando non si è leader ma follower, ma un cambiamento di rotta deve essere pur concordato, e i grandi attori – come l’Europa – hanno la loro responsabilità. Penso che sia sempre utile ricordare che il più prezioso patrimonio che possiamo lasciare ai nostri figli e nipoti è un pianeta vivibile.

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