Il calcio piange fra i lacrimogeni
La violenta rissa ha visto coinvolti buona parte dei 20 mila spettatori presenti: il campo è stato squalificato per dieci anni. Non chiedetevi perché un episodio di cronaca così eclatante vi sia sfuggito: è semplicemente avvenuto nel 59 d.C., nell’anfiteatro di Pompei, durante una sfida fra i gladiatori locali e quelli di Nocera. Una conferma che i recenti ripetuti episodi di violenza negli stadi hanno dunque una tradizione storica. L’attualità è segnata da due interventi: l’emanazione di un decreto anti-violenza da parte del governo e le accuse del presidente della Lega Calcio, Adriano Galliani, che ha tentato di scaricare la colpa di tanta violenza sui mezzi di informazione Abbiamo cercato di coglierne alcuni echi fra i giornalisti. Bruno Pizzul, volto e voce televisiva storica del calcio italiano, oggi libero da interessi professionali, respinge le accuse: “Tutte le componenti del calcio, francamente, hanno superato il livello di guardia e non è il caso di giocare allo scaricabarile”. Ma ammette: “I mezzi di informazione potrebbero cominciare ad offrire un contributo soprattutto sul piano del buon esempio: certi modi di proporre il calcio caratterizzati da una litigiosità esasperata, da una incapacità ad accettare le opinioni dell’altro, sono inaccettabili. Così come parlare di calcio sempre in chiave polemica, cercando qualcosa che non va, o anche rivisitando in modo esasperato ogni minuto della partita attraverso le moviole. Pure il linguaggio potrebbe essere più decoroso”. Di parere analogo è Marco Marchei, direttore di Correre, ma soprattutto de Il nuovo calcio, testata che si distingue per la serietà e l’equilibrio con cui propone il calcio giocato: “Le accuse di Galliani sono condivisibili, ma non generalizzerei. Ci sono media, giornali e trasmissioni televisive, che hanno assoluta necessità, per motivi di tornaconto economico, di mantenere alto il livello di attenzione sul calcio: per questo cercano di agganciarsi a qualunque tipo di pretesto, di notizia, per amplificarla e giustificare un determinato spazio”. Perché ha scelto di non intervenire nei dibattiti televisivi? “La mia scelta è forse impopolare, ma non ho accettato laddove gli argomenti che si trattavano non avevano nulla di veramente attinente al gioco del calcio come tale”. Brian Glanville è l’editorialista sportivo oggi più quotato in Inghilterra; scrive per il Sunday Times, dopo molti anni trascorsi in Italia, collaborando con le nostre testate sportive. Ci offre uno sguardo acuto sul nostro calcio. “Quelle di Galliani – commenta – sono scuse ridicole: la violenza negli stadi è per il vostro paese una cosa storica. E non solo perché il vostro è un popolo bollente, passionale “. Glanville ci tiene a porre dei distinguo fra i nostri tifosi più caldi, gli “ultras”, ed i loro “hooligans”: “Anzitutto è curioso che i tifosi italiani possano vantare dei diritti di esprimere all’allenatore o al presidente i propri giudizi per gli insuccessi: per noi questo è semplicemente ridicolo. Va precisato che in Italia la violenza si scatena a partire da situazioni di gioco: una sconfitta, un rigore negato, una scorrettezza in campo, motivi dunque di altruismo, dettati dalla passione nel sostenere i propri colori. In Inghilterra la violenza è motivata da sé stessa ed è fine a sé stessa, senza alcun collegamento con l’evento sportivo. È una ragion d’essere: la violenza definisce le vite stesse degli hooligans. Essi pianificano gli scontri contro altri teppisti che nutrono gli stessi atteggiamenti”. Negli stadi inglesi, da sempre, non esistono barriere fra tribune e campo di gioco, mentre decine di telecamere a circuito chiuso controllano ogni gradinata: un modello da imitare in termini di sicurezza? “Non abbiamo il minimo diritto – spiega Glanville – di dichiarare che siamo superiori all’Italia: attraverso la tecnologia la polizia è riuscita a contenere la violenza, ma lo si è fatto a spese di incoraggiare la violenza fuori degli stadi, dove i controlli non arrivano”. Scettico dunque sul decreto? “Nella mia lunga carriera professionale ho sentito tanti offrire le loro ricette, esperti e studiosi. Mi allineo con coloro che sostengono sia inutile tentare di porre un argine solo attraverso la repressione, l’uso della forza”. Dove si può dunque fondare la prevenzione? “Facendo tutti un passo indietro – risponde Pizzul -: anche i grandi club se ne stanno rendendo conto, anche se gli interessi sono molti e frammentati. Il troppo denaro ha contaminato il mondo del calcio. Non è mica violenza solo quella dei tifosi: anche il fatto che si pianga miseria o si chiedano ulteriori sussidi o nuove risorse quando si sono buttati via migliaia di miliardi è una forma di violenza, che può a volte fomentare reazioni popolari incontrollate”. “Siamo contro il calcio business, per questo ci criminalizzano ” hanno stigmatizzato in modo un po’ velleitario, ma emblematico, quelli della “curva” di Torino. Il decreto può essere un aiuto? “Sì, ma non basta creare dei deterrenti – chiarisce Pizzul -. È necessaria una nuova cultura sportiva da offrire alle nuove generazioni, a cominciare dalla cultura della sconfitta: non significa giocare per perdere, ma accettare che si possa trovare uno più bravo o più fortunato di te che ti batte, senza farne un dramma, né cercare sempre le responsabilità negli arbitri, nella slealtà degli avversari, nelle congiure di palazzo, traendone invece motivo per migliorare. Sono fiducioso, a patto che intervengano tutti: la scuola, la famiglia, lo stesso sistema informativo, gli attori del calcio, presidenti, allenatori, calciatori, che devono in qualche maniera moderare i propri comportamenti, il proprio linguaggio”. Anche Marchei è d’accordo: “Le cose potrebbero davvero cambiare se riusciamo a far crescere una generazione di calciatori capaci di sdrammatizzare le situazioni, capaci di porsi di fronte ai media in modo consapevole. Tommasi, Albertini sono esempi, ragazzi fuori dalla media, di cui abbiamo bisogno, ma credo possano essere molti di più. Tanto più un calciatore è famoso e tanto più può essere un modello per una certa cultura dello sport”. Ed aggiunge: “Il decreto può essere efficace, ma occorre ridare a mio parere al calcio il suo ruolo di sport, oggi vero solo a livello giovanile. Lo sport è questo: capire quanto vale un atleta, fino a dove può arrivare, come allenarlo, capire se è in forma ed in salute: questo è il compito di un allenatore, aiutato dai suoi collaboratori, altro che interpretare le sue scelte come elucubrazioni di una mente brillante, o malata, a seconda dei risultati! È l’obiettivo della rivista: dare, attraverso i contributi tecnici, anche un contributo morale, facendo in modo che il calciatore abbia il ruolo centrale del gioco, come persona da rispettare e che rispetti gli altri”.