Il Cairo di Mahfuz
Il cantore della gente del popolo, dei poveri e diseredati dei quartieri periferici del Cairo, colui che col linguaggio universale dell'arte ha saputo trasfigurare la quotidianità, le sofferenze e i tentativi di riscatto di quelli che non contano è stato senz’altro Naghib Mahfuz. Nato nella capitale egiziana nel 1912 in una famiglia della piccola borghesia, laureatosi in filosofia nel 1934, sale alla ribalta letteraria nel 1938 con una raccolta di novelle. Ammiratore dei grandi della letteratura occidentale, dopo i primi romanzi a sfondo storico sull'antico Egitto (ma con allusioni alle problematiche socio-politiche contemporanee), passa a quella scrittura più realistica per la quale diventerà famoso. Il frutto più maturo di questa nuova stagione è la straordinaria Trilogia del Cairo.
La sua attività di romanziere si interrompe nel 1952, anno del golpe che rovescia la monarchia e vede l'avvento di Nasser: una forma di protesta per la mancata soluzione, da parte dei nuovi leader al potere, dei problemi del popolo minuto. Riprende a scrivere nel 1959, ma con mezzi espressivi diversi: abbandonato il realismo, Mahfuz dà più spazio all'introspezione, approdando al simbolismo: inaugura questa terza fase Il rione dei ragazzi. La successiva produzione comprende altri intensi e poetici romanzi, sempre più caratterizzati da un afflato religioso e dalla ripresa dei suoi temi prediletti: i valori della famiglia e della giustizia, l'eterna lotta tra bene e male. Primo autore di cultura e lingua araba a ricevere il Premio Nobel (1988), ormai famoso e amato non solo in tutto il mondo arabo, ma anche all'estero, è tuttavia vittima nel 1994 di un attentato da parte di un fondamentalista islamico. Gli importanti riconoscimenti attribuitigli in patria (dove ricoprirà anche vari incarichi nel campo dei beni culturali, del cinema e della letteratura) nonché all'estero, non alterano però la semplicità e la modestia della sua persona, evocatrice dei grandi saggi dell'Oriente.
Conclude la sua lunga e operosa esistenza nell’agosto 2005, a 94 anni.
Uomo di pace e nemico dell'intolleranza, duramente critico verso corruzione e potere, Mahfuz ha saputo sempre evolversi nello stile e nel genere narrativo; vero inventore del romanzo arabo e riferimento imprescindibile per tutti gli scrittori in questa lingua, dal Marocco all'Iraq.
Fino all'ultimo, pur malato, quasi cieco e sordo, questo “esploratore dell'anima”, come è stato definito, aveva dettato per quotidiani e riviste brevi storie e riflessioni (per lui la scrittura era una necessità vitale, una «fidanzata eternamente giovane»). Da tempo invece aveva dovuto rinunciare alla grande letteratura. Ci lascia però – insieme a saggi, racconti, testi teatrali ed un numero sterminato di articoli – una sessantina di romanzi che rispecchiano le vicende spesso travagliate del suo Paese e, di riflesso, quelle di tutto il mondo arabo.
Spiccano tra tutti la Trilogia del Cairo, che gli ha meritato il Nobel, saga di una famiglia musulmana della piccola borghesia commerciale cairota, seguita lungo tre generazioni (dal 1917 al 1944); come pure Il rione dei ragazzi, storia allegorica dell'uomo alla continua ricerca dei valori spirituali: questo romanzo atipico, a suo tempo ritenuto blasfemo e censurato in Egitto, mette in rilievo i valori spirituali e culturali delle tre grandi religioni monoteiste che hanno umanizzato e civilizzato l'Oriente e l'Occidente, ma che oggi la presunzione di un progresso materialista cerca di emarginare. E lo fa attraverso le vite di quattro ragazzi, libera interpretazione dei fondatori: Abramo, Mosè, Gesù e Maometto.
Altro affascinante testo è L'epopea dei harafish, ovvero gli emarginati del Cairo, siano essi venditori ambulanti o più spesso vagabondi: gente comunque che vive di espedienti (abitando nel popolare quartiere di Gamaliyya, lo scrittore stava a stretto contatto con questa umanità, per lui fonte inesauribile di ispirazione). È la storia di Ashur, un trovatello che grazie alla sua forza e generosità assurge al ruolo di futuwwa o signore del vicolo (una sorta di guappo) e dei suoi discendenti.
Vi si celebra il faticoso e lento riscatto di una classe sociale “ultima”, la sua aspirazione – che è la stessa della corrente mistica del sufismo – ad una vita purificata e interiore: lo rivela la costante attrazione suscitata nei personaggi di questa saga familiare dagli inni devozionali dei dervisci, la cui sede nel cuore di questo quartiere dove bande rivali lottano per il predominio indica al tempo stesso la vicinanza e la trascendenza di Dio; inni che pur risultando incomprensibili (sono in persiano antico) immergono chi li ascolta in una sorta di estasi tra sogno e realtà, in cui ogni debolezza umana sembra svanire.
«Il romanzo – scrive la traduttrice Clelia Sarnelli Cerqua – si chiude con la storia dell'ultimo discendente dei Naghi, che si chiama anche lui Ashur come l'eroico avo. Egli riesce a convincere i harafish che, per elevarsi socialmente, non devono contare sull'aiuto di un futuwwa ma solo su sé stessi, raggiungendo così l'intento di trasformare una turba di miserabili in una forza straordinaria. È questo il messaggio di speranza che Mahfuz offre al lettore pur senza risparmiargli un quadro profondamente realistico del disagio sociale e delle debolezze dell'uomo».
Consapevole della lotta inesausta che l'uomo deve affrontare per affermare i valori dello spirito, anche a lui, ora, quegli inni incomprensibili avranno svelato pienamente il loro significato.