Il Cain di Marco Filiberti

Un film molto esigente, dove attimi di poesia coronano la meditazione sull’uomo e la storia
Cain

Notturni ed aurore, alberi fosforescenti e pleniluni romantici. Cavalli bianchi nelle nebbie e sterminate colline senesi. Una cornice di eventi naturalistici che tuttavia fuggono talora nel visionario e nell’onirico a contenere – se si può contenere – l’ultimo lavoro di Marco Filiberti, artista-autore di notevole spessore intellettuale e dalle infinite domande.

 

Elementi che lo rendono un regista controcorrente nell’attuale sistema teatrale-cinematografico, sulla cui vacuità egli insiste in quest’opera, dove i byroniani Manfred-Cain coesistono in un melodramma contemplativo e filosofico, sulfureo e drammatico, in cui ogni suggestione precedente è filtrata attraverso una spiccata originalità.

 

In un casale toscano un vecchio regista fuori schema (Renato Scarpa) prova e riprova con un gruppo di attori e attrici la messa in scena dell’opera – il Cain sopra tutto – di Byron. La bellezza della natura, la voglia giovanile di emergere non impediscono il sorgere del male, così come a Caino non impediva la gelosia verso Abele e la suggestione verso il delitto.

 

Dove è la bellezza e dove è la verità? Quale il loro confine? È una delle domande che il film – un teatro nel teatro (ma anche un teatro-cinema liberamente oscillante tra le due forme) – si pone e che Filiberti sgrana attraverso “quadri” ove sogno, danza, parola, orrore ed anche morte si intersecano quasi spiegandosi l’un l’altro con continui rimandi tra morte e vita, tra prova sul palcoscenico e prova nella realtà, fra l’orrore per l’attuale caos e nostalgia di una passata armonia.

 

C’è lo squilibrio, anche qui, tra le soavità toscane, perché il talentuoso primo attore Antonio (David Gallarello) è geloso del solare Amedeo (Gabriel Vanni), il cui arrivo porta la possibilità della catarsi o del dramma.

 

L’amore e la libertà sono allora davvero conquiste che devono esser pagate con il dolore ed il rimorso? Ed una luce, alla fine, sarà possibile riaverla?

 

Filiberti dipana il suo racconto viaggiando tra finzione e realtà, chiedendo ed ottenendo dal cast una partecipazione emotiva ed una verità di accenti cui la musica non invasiva conferisce il timbro della sincerità. Corpi e nature, interni e “paesi”, fotografati come un ciclo pittorico, alleggeriscono il film, di per sé molto esigente, e coronano di attimi di poesia la meditazione accesa di Filiberti sull’uomo e la storia, cercata dall’autore come Diogene con la lanterna.

 

Al cinema Mexico di Milano il 16 e il 23, dal 30 a Roma.

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons