Il Brahms di Temirkanov

Direttore della Filarmonica di San Pietroburgo, presente ogni anno a Roma all'Accademia di Santa Cecilia, propone la "Quarta Sinfonia" del compositore di Amburgo. Geniale come sempre e molto apprezzato dal pubblico
Accademia Nazionale di Santa Cecilia - Roma

Ci sono direttori molto amati per la loro genialità e la carica umana. Uno di questi è Yurij Temirkanov, 78 anni asciutti e svelti, nato nel Caucaso, dal 1988 direttore della Filarmonica di San Pietroburgo, invitato regolarmente dalle principali orchestre internazionali. A Roma, poi, è stato nominato lo scorso dicembre direttore onorario dell’Accademia di Santa Cecilia che lo vede presente ogni anno.

 

Chi non ha ascoltato la sua Quarta Sinfonia di Brahms si è perso un evento. Si tratta dell’ultimo lavoro sinfonico del grande di Amburgo, anno 1885. C’è tutto Brahms, qui dentro, ma anche tutto un secolo, o meglio la fine di un’era, ossia di un pensiero, di uno stile e le previsioni di qualcosa di nuovo, anche se ben nascosto dentro le calibrate architetture sonore dei quattro tempi.

 

Malinconia, voglia di vivere, passione, risentimento, foga. L’anima per nulla quieta di Johannes veleggia come dentro ad un uragano musicale, con scarti di colori, di ritmi che fanno trasalire e impazzire l’orchestra e nello stesso tempo abbandonarsi allo sfogo del sentimento più espanso. Siamo già alle soglie di Mahler, in cui la sinfonia diventa una gigantografia ove entra tutto e si può dire tutto forse per l’ultima volta. Ma se Mahler è abbandonato in lacrime sconfortanti, Brahms virilmente accetta il suo tempo combattendo mediante una sinfonia dal suono prorompente, dalle frasi sintetiche e forse rudi, ma con quanto calore umano. Temirkanov, che ora dirige solo ciò che gli piace, vi immette un fuoco, un impeto ruggente da tenere gli orchestrali in fibrillazione, cavando strappate dai pizzicati degli archi che sono colpi di fucile, arcate dei violoncelli come canti del cuore e densità dai corni del più puro mistero, come lontanissime eco di Weber, prima ancora che di Wagner.

 

Naturale poi soffermarsi sui cinque Canti per bambini morti (Kindertotenlieder) di Mahler, sui versi del poeta Friedrich Ruckert, malinconici come certe tele di Munch, ma non disperati. È la morte dei bambini che Mahler ha provato sulla sua pelle – la scomparsa della sua bambina Maria –, dolentissimo canto tra dissonanze, sospensioni lancinanti, interrogazioni dubbiose sul perché della morte infantile. Struggente è l’interpretazione del giovane baritono tedesco Markus Werba, dai lunghi fiati, dai pianissimi lievi: un voce calda, piena di umanità e di sentimento.

 

E infine la delicatezza onirica di Ravel e della sua Pavane pour une infante défunte, evanescente come un quadro simbolista, sussurrato più che detto, una sorta di "sonetto" in musica, più prezioso che profondo, più decorativo che commosso.

 

Temirkanov ha adattato l’orchestra ai diversi climi conducendola con la mano sapiente attraverso sensibilità l’una diversa dall’altra, eppure in un certo modo legate, se non altro dal tema del presagio della fine, oscillante tra sconforto e abbandono virile come è degli anni tra fine Ottocento e il primo ventennio del Novecento.

 

Riascoltare Temirkanov in Ravel (Orchestra del Teatro Kirov 2008), Giuseppe Sinopoli, a 15 anni dalla morte improvvisa a Berlino, cui era dedicato il concerto in Mahler (Staatskapelle Dresden 2001), e Carlos Kleiber in Brahms (Wiener Philarmoniker 1998): tre grandi direttori  a confronto.

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