Il Belarus Free Theatre, voce di denuncia

Torna in Italia, con tre spettacoli in scena a Roma, la compagnia bielorussa, mettendo alla berlina il regime di cui il Paese è ancora vittima
Generation jeans

Al teatro basta uno spazio quadrato e il corpo dell’attore. Quella estensione ristretta può evocare una stanza o il mondo; la presenza fisica l’universo interiore o l’umanità intera. Alla compagnia Belarus Free Theatre basta questo per dare voce alla loro urgenza di teatro. E di denuncia. Pochi oggetti in scena e sei attori portano alla ribalta la dirompente necessità di un teatro come unica forma di lotta rimasta per la libertà di espressione e per la circolazione delle idee.
 
Frase che potrebbe sembrare retorica. Ma in un Paese quale la Bielorussia, l’ultima dittatura d’Europa, l’arte teatrale di questa compagnia, considerata illegale, appare scomoda e pericolosa al regime. Che li ha censurati e interdetto i palcoscenici, più volte arrestati e torturati. Sono ritenuti sovversivi perché danno voce a testi contemporanei, a voci di oggi, a storie vere di soprusi e di emarginazione.
 
Denunciano la violenza di Stato, il clima di repressione, il carcere preventivo, le torture. Mettono alla berlina il regime dittatoriale del presidente Aleksander Lukashenko, al potere dal 1994. Costretti a lavorare di nascosto, i loro spettacoli si svolgono in clandestinità. Luoghi improvvisati e sempre diversi, case private, boschi, fabbriche abbandonate. Il pubblico viene avvertito tramite sms, mail, passaparola. Un tam tam che ha attirato l’attenzione e il sostegno di importanti istituzioni e personalità internazionali politiche, del mondo dell’arte e dello spettacolo. Quando un anno e mezzo fa furono arrestati, Tom Stoppard si mise alla testa di un comitato di personalità e star – tra cui Vaclav Havel, Mick Jagger, Colin Firth – per ottenere la loro liberazione. In seguito ai gravi disordini scoppiati nel 2010 per la rielezione di Lucashenko, alcuni dirigenti del BFT hanno lasciato il Paese rifugiandosi in Gran Bretagna, da dove continuano a guidare le attività a Minsk e a realizzare i loro spettacoli attraverso la rete. Invece, i componenti del gruppo rimasti in Bielorussia vivono tuttora controllati dalla polizia, schedati, senza una sede fissa per il loro lavoro; prove e spettacoli si tengono in totale clandestinità.
 
Nato sette anni fa dal regista Vladimir Shcherban e dal drammaturgo Nikolai Khalenzin con la moglie Natalia Kiliada, il Belarus Free ha all’attivo diversi spettacoli dal forte impatto “politico”, anche se i componenti non considerano tale il loro teatro. Dopo una breve apparizione in Italia nel dicembre del 2010, fortemente voluta da Natalia Di Iorio per “Le vie dei Festival”, è ritornato a Roma con tre spettacoli: i due storici Generation Jeans e Being Harold Pinter, che hanno segnato l’affermazione del gruppo sulla scena internazionale e, in esclusiva nazionale, il più recente A Flower of Pina Bausch.
 
Al Belarus Free si potrebbe contestare una certa ingenuità stilistica. Ma occorre guardare a questo teatro sgombri delle nostre categorie estetiche, e prendere atto, ancora una volta, che il teatro ha bisogno di pochi mezzi. Quando, naturalmente, alle idee si accompagna una forte spinta dettata da una necessità. E necessario è il bisogno di parlare del loro Paese, della loro vita, dell’esigenza di libertà, di dire e denunciare ciò che altri tacciono. Assume, quindi, un forte valore di manifesto politico Generation Jeans, un monologo sulla cultura dei jeans, sulla musica rock, su quelle che sono diventate icone e simbolo di libertà.
 
Ma non è solo questo. Nikolai Khalezin, protagonista in scena e anche regista dello spettacolo, con alle spalle un dj alla consolle, ambienta la storia in Unione Sovietica, nel tempo in cui i jeans e il rock erano proibiti e i venditori dei pantaloni texani venivano arrestati dai servizi segreti. Da qui il monologo muove, con progressivo inserimento di bandiere e cambi di pantaloni e magliette, verso la realtà attuale del regime dittatoriale in Bielorussia, raccontando il rapimento e l’arresto del protagonista e dei suoi compagni.
 
Il testo è un omaggio a quelle generazioni che rifiutano di essere imbavagliate e che in ogni contesto storico lottano ed hanno lottato per la libertà  sacrificando intere generazioni. Khalezin accenna alle esperienze di Paesi come Lituania, Polonia e Cecoslovacchia, soffermandosi sulla figura emblematica di Jan Palach, il giovane divenuto simbolo della resistenza anti-sovietica e della Primavera di Praga. L’attore rievoca, attraverso il suo ingenuo ricordo ancora bambino, la data di quel 19 gennaio 1969, il giorno in cui Palach si diede fuoco. Per concludere regalando al pubblico brandelli di jeans da lui tagliati durante il monologo.
 

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