Il bambino e la malattia grave
Giulio, il nostro terzo figlio, sei anni, ha una grave patologia cerebrale: non riesce ad alimentarsi da solo, ha difficoltà respiratorie, è costretto su una sedia a rotelle e presenta frequenti crisi convulsive. Necessita di fatto di assistenza 24 ore su 24. Molte parole ci vorrebbero per dire del dolore e della stanchezza, ma anche per narrare dell’amore di tante persone che ci hanno accompagnato fino ad oggi o di come si possa riscoprire la bellezza della vita anche in un corpo martoriato, di come oggi ci sentiamo tutti uniti grazie a Giulio. Vorremmo che si parlasse di più del bambino con malattia cronica, di quello che oggi si fa (e soprattutto non si fa!) per chi ha questa condizione, e di come l’amore possa divenire la più potente delle medicine, così come noi abbiamo verificato in questi anni. Raffaella e Tiziano Chieti Grazie di cuore per queste righe. Essere impotenti e non riuscire a lenire il dolore di un figlio che mille volte vorremmo poter provare noi per lui. La rabbia verso sé stessi perché ci si sente stanchi e non si hanno più energie da potergli donare e pure la necessità di trovarle quelle energie, perché lui ha bisogno di noi. La rabbia verso un sistema troppe volte scarsamente efficiente nel garantirgli quelle cure che gli permetterebbero di vivere la sua malattia in maniera dignitosa. Se un figlio si ammala è tutta la famiglia che deve cambiare, perciò è tutta la famiglia e soprattutto gli altri figli che hanno bisogno di sostegno per andare avanti. Un bimbo ammalato può sfasciare una famiglia o può, al contrario, divenire incentivo per una crescita umana più ricca e piena. Sono d’accordo con loro: dobbiamo parlare di più di chi è ammalato, dare voce ad un mondo di dolore che la società del consumo vuole fare credere sia sostanzialmente scomparso. Deve crescere la ricerca per prevenire e curare le malattie, ma anche la consapevolezza che non si affronta la malattia grave con l’eutanasia ma con siringhe d’amore forte, sostenuto e alimentato. Un mio caro amico di 39 anni, non credente, da circa un mese ha scoperto essere affetto da un cancro incurabile. Lui proprio ieri scriveva a me e ad altri amici: Sento chiaramente che cura non ha a che fare solo con terapia. La terapia farà il suo corso, così come la malattia; per quanto riguarda questi aspetti, vedremo. Ma cura è ora per me sentire il senso di ogni attimo di vita che riesco a respirare. Le vostre molteplici attenzioni, i vostri pensieri, le vostre preghiere mi restituiscono un po’ il senso di questo mio vivere.Mi dico: se mi amano così, la mia vita non è andata sprecata, ha un piccolo senso. Di questo vi ringrazio dal più profondo del mio cuore. È l’amore che cambia il senso stesso del dolore. Un bimbo che soffre attrae amore, ed è forse questo il dono più grande che egli fa a chi gli è vicino e all’umanità. Amare un ragazzo ammalato significa fare cose concrete, atti che non saranno mai noti. Ma talvolta amare è anche parlare di cosa significa affrontare giorno per giorno le enormi sfide che la disabilità di un figlio comporta, parlare di più della malattia grave, affinché sempre di più ciascuno assuma coscienza della necessità di fare crescere il rispetto e la capacità di cura verso chi soffre.