Il caso Ruffini
Per capire cosa sia la tv di Stato oggi, a cosa sia ridotta e quali rischi corra, basta rileggere i passaggi della nota vicenda, metterli in colonna e tirare le somme.
Paolo Ruffini è un giornalista stimato, di modi gentili e tutto fuorché un estremista, che per anni ha guidato Raitre, promuovendo programmi d’inchiesta, talk show innovativi e idee per l’intrattenimento che sono vere e proprie perle del servizio pubblico come Report e Presa diretta, Che tempo che fa e Ballarò. Programmi che hanno coniugato ascolti e qualità, due termini che nella tv di oggi si guardano in cagnesco. Se c’è l’uno spesso scappa inorridito.
Uno così, in un’azienda qualsiasi, lo si tutelerebbe come l’orso marsicano nel Parco nazionale d’Abruzzo. Ed invece nella Rai dominata dai partiti, c’è chi, dopo mesi di attacchi, ha deciso che dovesse esser accantonato, messo nelle condizioni di non nuocere. Beninteso, chi lo ha sostituito non è incompetente, tutt’altro. Antonio Di Bella è un altro gran professionista che per anni ha tenuto dritta la barra del Tg3 e che meritava di avere una chance alla direzione della Rete più attenta alle sperimentazioni.
Un avvicendamento è cosa normale, talvolta addirittura salutare. Ma non è questo il punto. A rendere la vicenda grave è il modo e le motivazioni che hanno portato all’allontanamento di Ruffini. Che fosse sgradito alla maggioranza era chiaro: chi ancora nutrisse al riguardo dei dubbi è stato convinto da un’intercettazione, emersa dall’indagine di Trani, una telefonata nella quale l’attuale direttore generale della Rai, Mauro Masi, dando l’impressione di difendersi dall’accusa di non aver eseguito fino in fondo gli ordini ricevuti, dice a Giancarlo Innocenzi, commissario dell’Authority per le comunicazioni: «Abbiamo tolto anche Ruffini».
Una frase buttata lì, che è però il sintomo di una malattia cronica: la dipendenza della Rai dalle decisioni di chi governa. E così dopo avergli proposto incarichi poco rispettosi del suo curriculum, all’ultimo di innumerevoli rinvii il cda Rai ha deciso di affidare a Ruffini la guida di Rai Premium e di Rai Educational, canali di grande qualità, ma non certo capaci di incidere sull’opinione pubblica. La vicenda peraltro non è del tutto chiusa: «Farò valere i miei diritti in tutte le sedi», ammonisce l’ex direttore di Raitre alla vigilia della prima udienza, il 29 aprile, della causa intentata contro l’azienda per chiedere il reintegro.
Ed eccoci allora a tirare le somme. La Rai ha ottenuto i seguenti risultati: ha bruciato un ottimo direttore e ha messo anche il suo successore nelle condizioni peggiori per lavorare; rischia di doverlo riammettere per decisione di un giudice; ha perso mesi di logoranti polemiche a tutto vantaggio della concorrenza; ha destabilizzato una rete (forse l’unica) che aveva una chiara direzione di marcia; ha macchiato una volta di più la sua immagine dando l’impressione di essere diretta da fuori. A questo proposito, meglio di noi le somme le ha tirate Sergio Zavoli, presidente della Commissione di vigilanza, e monumento vivente di una Rai di cui andare orgogliosi. «L’azienda sta smarrendo una sua autonoma facoltà critica – commenta –, ormai è una pulzella promessa che dice sì alle pretese di tutti i pretendenti». Un modo senza dubbio forbito, elegante e raffinato per dire una triste verità.