Iil ritorno della bellezza
Se c’è una cosa che Rodolfo Papa non sopporta sono certe chiese di oggi desolatamente spoglie. Lui, che di colori e figure va rivestendo edifici sacri antichi e moderni, realizzerebbe in quegli spazi chissà quali cicli pittorici capaci di saziare gli occhi e l’anima. Come un tempo, quando l’arte cristiana era il mezzo più efficace per istruire ed elevare il popolo. Artista affermato, studioso di storia dell’arte con all’attivo numerose monografie, Papa mi accoglie nel suo studio romano traboccante di quadri, bozzetti, cartoni di opere già realizzate o in corso di lavorazione. È come in una bottega rinascimentale – spiega -, dove a chi me lo richiede faccio un dipinto come un vestito su misura. Il richiamo è a quegli artigiani di altissimo livello, talora anche anonimi, che più che abbandonarsi all’estro dell’ispirazione dovevano soddisfare le meticolose indicazioni dei committenti; riuscendo spesso tuttavia a creare, al di là delle briglie imposte, autentici capolavori. Sono nato a Roma nel 1964 – inizia a raccontare Papa -, ma quando avevo cinque anni la mia famiglia si è trasferita a Grottaferrata, dove ho trascorso vent’anni. Fin da piccolo, ho trovato un humus che mi ha educato alla bellezza: ricordo che sapevo appena leggere quando ho cominciato a divorare i fascicoli mensili dei Maestri del colore della Fabbri, che i miei compravano in edicola. Col risultato che già alle medie avevo assimilato l’intera collezione: duemila opere di duecento pittori. Ho imparato a disegnare e a dipingere passando intere giornate in musei e gallerie, e al tempo stesso studiando su trattati di pittura piuttosto complessi per l’età che avevo. Nei turbolenti anni Settanta l’abbazia di San Nilo, dove ho frequentato il liceo, è stata per me un porto tranquillo. Profonda l’impronta del clima culturale respirato lì, a contatto con una liturgia di rito bizantino e una biblioteca ricca di testi antichi anche di oltre mille anni. All’università, studi di architettura e poi di lettere e filosofia con l’indirizzo storico-artistico. E proprio studiando storia dell’architettura cristiana, verso i 22-23 anni, insieme alla mia fede è maturata un’attrazione esclusiva a fare l’artista per la Chiesa. Una tappa ulteriore, il matrimonio: in quell’occasione il celebrante, mio ex professore d’italiano e carissimo amico, ha strappato a mia moglie la promessa di lasciarmi libero di seguire quella che ormai era sbocciata come una vocazione: la pittura. Da allora questa è la mia professione, che m’impegna 24 ore su 24 (1). Nei suoi dipinti rivela uno stile personalissimo, ma ricollegato alla tradizione. Come si ritiene lei? Le rispondo citando il critico e storico dell’arte Steve Pepper, morto qualche anno fa. Dopo aver visitato il mio studio, commentò nel suo italiano approssimato: La tua pittura è la giusta coniugazione tra Guercino e la pop art. In effetti certe mie soluzioni, non solo formali, ma compositive, si possono ricondurre a Guercino, Leonardo, Tiziano, Sebastiano del Piombo, Beato Angelico… È inevitabile: se l’hai veramente interiorizzato, ti porti appresso tutto il bagaglio che possiedi. E al contempo c’è da parte mia una attenzione costante all’oggi: per esempio, in certi miei dipinti, sotto il manto di Maria o al cospetto di Dio puoi trovare giovani con le magliette griffate, i jeans, le scarpe da ginnastica… Ad ogni modo il mio stile lo definirei un umanesimo moderato, cioè una pittura che riflette sull’uomo, su tutto l’uomo. Gli artisti del passato avevano questa capacità rispetto ai contemporanei, che troppo spesso risultano piuttosto monotoni. Oggi, infatti, anche tra i maggiori, ce ne sono di quelli che esprimono quasi esclusivamente una angoscia permanente, una disperazione cosmica. Io credo invece che l’artista, specie se chiamato a raccontare attraverso immagini le sacre storie, debba padroneggiare tanti registri diversi perché lì dentro trovi di tutto: il tragico, il divertente… . Quali opere sue ritiene più valide? Io ragiono così: l’opera alla quale sto lavorando è la continuazione delle precedenti in quanto cerco di risolvere in questa ciò che mi ha lasciato insoddisfatto nelle altre. Per questo ho più a cuore quelle che dal mio punto di vista hanno più difetti. Se invece dovessi indicare quali opere ritengo più compiute, direi – da un punto di vista teologico – il grande Crocifisso di Bojano, perché lì è Cristo crocifisso che risorge e ascende al cielo contemporaneamente: qualcosa di profondamente originale dal lato iconografico, pur essendo realizzato in un modo tradizionale. Sempre nella cattedrale di Bojano, ho dipinto una Cena in Emmaus che ritengo una delle mie cose migliori dal punto di vista cromatico, dell’atmosfera. C’è dentro tutta la pittura del Seicento, però diventata un’altra cosa. Un quadro invece al quale sono affezionato per motivi personali è la Madonna del manto che ho realizzato nella chiesa dei Santi Fabiano e Venanzio qui a Roma per don Andrea Santoro, prima che la sua domanda di partire per la Turchia venisse accolta. È stato un po’ il suo testamento nel rapporto fra me e lui: perché la preghiera che ha fatto stampare dietro al santino ricavato da quella immagine esprime esattamente quello che poi gli sarebbe accaduto. Chi è per lei l’artista? Glielo dico con un esempio. Per tutto il tempo che Duccio da Buoninsegna dipinse la sua Maestà a Siena, giorno e notte era vietato passare con carretti o fare schiamazzi davanti alla sua bottega; e la paglia con cui si ricoprivano le strade adiacenti veniva cambiata due volte al giorno per lasciare lavorare l’artista tranquillo. Era insomma l’intera comunità a prendersi carico del fatto che qualcuno stava creando un capolavoro per tutti. E quando questo fu compiuto, tutta Siena, dal vescovo all’ultimo poveraccio, accompagnò in processione l’opera di Duccio fino alla cattedrale, e tutti pregarono davanti ad essa. Chi è per me l’artista? Uno che produce una cosa inutile come l’arte, che costa intelligenza, fatica e denaro, ma di cui non si può fare a meno. Sì, perché senza bellezza non si può vivere. Ma quanti artisti oggi ricevono lo stesso rispetto di un Duccio? In un condominio rumoroso come il mio non si capisce neanche cosa fa, cos’è un artista: anzi, rischi di apparire a volte un tipo strano, o comunque un diverso. Lei accennava alla bellezza. Può anche un crocifisso ricoperto di piaghe essere sinonimo di bellezza? Ma certo! Nulla vien tolto alla bellezza intesa, in senso classico, come ciò che ha armonia e può tradursi in rapporti numerici: seppur coperto di piaghe e di sangue, il corpo umano rimane quello proporzionale, studiato dai greci e approfondito soprattutto dalla tecnica e dalla teoria dell’arte dal Medioevo al Rinascimento. Che poi il prodotto più bello della creazione venga deturpato dalla violenza del peccato, semmai riceve in aggiunta una bellezza d’altro tipo, scandalo per gli ebrei e stoltezza per i greci, perché sono state quelle piaghe a salvare il mondo. E a proposito di bellezza: finalmente sembra che essa riappaia all’orizzonte come bene comune, desiderabile. Anche in ambito laico certi studiosi affermano che è ormai arrivata alla consunzione l’estetica del brutto, in quanto la gente non sopporta più chiese ed opere d’arte brutte o che riposano esclusivamente sullo scandalo. Non a caso nelle accademie d’arte più prestigiose del mondo è in forte ripresa lo studio dell’anatomia, delle tecniche tradizionali e soprattutto del Rinascimento italiano. Quindi c’è speranza. Ogni opera nasce da un progetto, da un’idea, ma poi può essere che ciò che l’artista sta creando influisca in qualche modo su di lui, trasformandolo dall’interno? Certo! Intanto nessuno può dare ciò che non ha. Come ci ha ricordato Giovanni Paolo II, la Cappella Sistina è stata dipinta da un grande artista che era anche un grande teologo. Se io non vivo all’interno di una dimensione spirituale e culturale, se non conosco dal di dentro le difficoltà della preghiera, della contemplazione, difficilmente riuscirò a creare qualcosa di convincente. Quindi è chiaro che quello a cui sto lavorando mi ha già trasformato prima, se no non potrei realizzarlo così. Può accadere ogni tanto che in un’opera progettata in un certo modo ad un certo punto sbocci qualcosa di inaspettato; e questo anche a distanza di tempo. Per esempio, una volta nella basilica romana di San Crisogono, notando una persona in preghiera davanti ai miei dipinti realizzati 15 anni prima, ho avuto l’impressione di vederli per la prima volta: come se fossero usciti definitivamente da me, diventati qualcosa di autonomo, che serviva alla comunità per la preghiera. È questo che riempie la vita ad un artista e gli fa sentire che la sua opera ha un senso anche in una civiltà utilitaristica e sgangherata come questa.