Ieri clandestina, oggi imprenditrice
Una donna in gamba, affermata, elegante, che sa il fatto suo. Reyna Victoria Terrones Castro, lineamenti andini in un volto dolce, è arrivata in Italia in un modo, per usare un eufemismo, rocambolesco. Fugge dal Perù nel 1993, con la figlia undicenne, per un’insostenibile situazione familiare. Atterra a Budapest senza visto: può solo essere spedita indietro, ma con 200 dollari si possono oliare anche i meccanismi della frontiera. In Austria prende un treno diretto a Udine. La destinazione finale di Reyna è Roma, dove vive una sua cugina. Sa che è illegale, ma è la forza dell’ultima chance a spingerla, aiutata da un commerciante rumeno, a nascondersi con la figlia nei controsoffitti di un treno che la porta a Udine. Un viaggio allucinante: chiusa nelle pareti del treno a contatto con cavi, grasso, ragnatele e una tubatura d’acqua calda. Dopo due ore di viaggio, il rumeno, le “libera”, ma sono sorprese dai controllori del treno che chiamano la polizia. Le autorità, appurato che sono clandestine, consegnano il foglio di via dando l’indicazione che si devono presentare in questura alle dieci del giorno dopo. Reyna non sa neanche dov’è Udine, e prende un taxi, al costo di 1.000 dollari, per raggiungere a Roma i suoi parenti. All’arrivo le restano cinque dollari per sperare in una vita migliore.
Una volta nella capitale, l’incubo continua. Reyna deve nascondersi una seconda volta, perché i suoi parenti prestano servizi domestici presso una villa e per loro non c’è posto. L’aver una figlia da sfamare e da far studiare, i ponti tagliati dietro le spalle, non poter tornare in Perù, le fa affrontare con decisione la realtà: deve trovare lavoro, subito. Legge Porta Portese, una rivista di annunci di ricerca e offerta di lavoro, e cinque giorni dopo è già all’opera. Sa fare di tutto: baby sitter, colf, manicure, pedicure, confezionare vestiti, cucinare. Lavora per cinque anni consecutivi per 14 ore al giorno in 13 diverse famiglie. «Di giorno – ricorda Reyna – mi prendevo cura delle case di tante famiglie, mentre alla sera assistevo i malati nelle cliniche».
Si riposa solo la domenica e riesce a prendersi cinque giorni di ferie dopo cinque anni. Nel 1996, la prima svolta decisiva. Con la sanatoria ottiene un regolare permesso di soggiorno.
Vuole aprire una sua impresa, ma non sa come fare, a chi rivolgersi. Un incidente in motorino la costringe all’inattività per 45 giorni e le permette di avere del tempo a disposizione per pensare e progettare. Dapprima prova con il lavoro autonomo e l’apertura di una società con sede nel salotto di casa, poi, nel 2004 apre la cooperativa sociale Queens Servizi, pagando il notaio con tutti i suoi risparmi. «Credo che la cooperativa sia un modello d’impresa – spiega Reyna – perché ci sono valori fondamentali per noi stranieri: si collabora sia con immigrati, che con italiani; si creano rapporti di solidarietà e fiducia e si procede attraverso la condivisione e il confronto; è un modo per creare integrazione sociale».
Oggi la Queens Service ha 23 soci lavoratori, naviga a vista, come tanti, tra le difficoltà economiche. Il campo di attività è nel riciclo dei rifiuti dove impiega rom, immigrati, rifugiati («anche italiani perché non siamo razzisti»), riscattandoli socialmente e integrandoli nella società e nel mondo del lavoro. «Sono convinta – conclude Reyna – che la vita è un miracolo. La mia storia lo insegna».