Ibsen, tra colpa ed espiazione

È il dramma dell'inazione, del presente svuotato, dei fantasmi che vincono sui viventi. È luogo dell'anima e castello dei destini incrociati. È un horror in forma di seduta psicanalitica: forse il più palpitante 'copione del terrore' uscito dalla penna dell’autore norvegese. Così spiega “Rosmersholm” il regista e attore Luca Micheletti, in scena al Franco Parenti di Milano

È il peso del passato a incombere sulla luttuosa atmosfera che si respira in tutta la pièce di Rosmersholm. Il gioco della confessione, di Ibsen, concepita dal regista Luca Micheletti anche interprete insieme a Federica Fracassi. Un passato rivissuto da due anime in pena i cui corpi incontriamo già morti entrando nello spazio semioscuro da veglia funebre, distesi su due lunghi tavoli illuminati da due lampade ad olio. Siamo già nell’epilogo. Il loro risveglio, scandito da graduali rivelazioni di pensieri reconditi che l’un l’altra manifesteranno nel comune incubo, sarà per ricostruire il corso della memoria che, in vita, li ha visti intrecciare una torbida relazione. Lui, Johannes Rosmer, un ex pastore luterano, è schiacciato da una serie di fattori: la sua origine conservatrice, la perdita della fede religiosa, il senso di colpa per il suicidio di sua moglie ridotta alla disperazione dalla propria sterilità. Dopo quella morte egli ha rinunciato alla sua missione ecclesiastica, sostenendo il valore autonomo della vita, e nella felicità terrena lo scopo dell’esistenza. Ama, riamato, Rebecca West, giovane governante e già dama di compagnia della consorte, insinuatasi nella casa del pastore al quale, più tardi, confesserà di aver provocato la follia e il suicidio della moglie facendole credere di essere incinta del marito.

Rosmer vorrebbe sposare Rebecca, ma la giovane inspiegabilmente rifiuta. Aiutato da lei, che voleva fare dell’uomo amato una creatura nobile, aveva creduto comunque di poter iniziare un nuovo cammino di idealismo missionario. Rimarrà, però, solo un sogno, perseguitato com’è da demoni incestuosi. Da una parte vorrebbe riconoscere questa pulsione per liberarsene, ma dall’altra avverte che quella colpa richiede una punizione. Per un tratto sembra voler criminalizzare la sola Rebecca, addossare la responsabilità unicamente su di lei, chiedendole di uccidersi per amor suo. Ma poi, alla fine, riconosce in lei l’altra faccia di sé e accetta pertanto che la morte li travolga. Entrambi sono guidati al suicidio, non solo per la colpa ma dalla disperazione per la constatazione della morte della civiltà.

La scelta del titolo, il riferimento alla casa dei Rosmer, è l’evidente segnale che Ibsen dà circa la potenza che il luogo emana sulle volontà dei personaggi i quali agiscono avvinti da una sorta di grande risucchio che impedisce loro di affrontare l’esistenza senza che tornino “i cavalli bianchi”, simbolico incubo di un passato che li accompagna in ogni momento. In questo crescendo di tragicità che tocca i problemi più profondi della natura umana, Ibsen mostra la distanza tra ciò che l’uomo vuole e ciò che può, indica con una metafora l’indistruttibile capacità di felicità dell’uomo, la labilità delle felicità stessa e l’impossibilità di godersela.

Luca Micheletti, riprendendo la riduzione di Rosmersholm ricavata dal regista Massimo Castri nel 1980, ne fa il dramma dell’inazione, un horror in forma di seduta psicanalitica dove le parole sono lame taglienti e armi di tortura. Accogliendoci in quella camera mortuaria a stretto contatto con i due protagonisti al centro della scena, immersi tutti nelle esalazioni del fumo delle lampade e del profumo stordente dei fiori avvizziti sparsi a terra, assistiamo, disposti ai lati come in un ring, ad un duello di anime senza esclusione di colpi. Tra fioche luci ora bluastre, ora calde, e improvvise accensioni di neon a terra; tra posizionamenti frontali e posture giacenti; tra scambi d’abito per alternanza di identità, e messe a fuoco dall’alto dei tavoli con appostamenti dietro di essi trasformati in porte, muri e luoghi di sussurri e grida; tra attrazioni, repulsioni e confessioni dietro una sedia, mentre rumori e suoni d’acqua scandiscono il tempo a ritroso di questa ballata tragicomica, i due si delineano sempre più nel loro macabro relazionarsi come “incarnazioni simboliche di due estremi opposti che finiscono per confondersi e annientarsi”.

Ed è encomiabile l’approccio di astrazione concreta, di sospensione fra realtà e incubo, che la messinscena sortisce, con Fracassi e Micheletti, più che bravi, che ci tengono dentro la storia – e una scena senza scampo –, avvinti a un iniziale disagio ben presto tramutato in impercettibile partecipazione emotiva. Che ci accompagna ancora mentre i due si ricompongono nelle pose cadaveriche dell’inizio.

Luca Micheletti e Federica Fracassi proseguiranno nell’esplorazione dell’universo ibseniano con con Peer Gynt (Suite), tappa del “Percorso Ibsen”, previsto ad aprile nel cartellone del Teatro Franco Parenti di Milano nel mese di aprile.

“Rosmersholm. Il gioco della confessione”, monodramma a due voci di Henrik Ibsen, riduzione Massimo Castri, da un’idea di e con Federica Fracassi e Luca Micheletti, regia Luca Micheletti, musiche Henry Cow, Jeff Greinke, Emmerich Kálmán, luci Fabrizio Ballini, suono Nicola Ragni. Produzione Teatro Franco Parenti in collaborazione con Compagnia Teatrale I GUITTI, sotto l’Alto Patrocinio della Reale Ambasciata di Norvegia, e con il sostegno di Innovation Norway. A Milano, Teatro Franco Parenti, fino all’11/2.

 

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