I tanti misteri di Giulio

È morto uno dei più longevi statisti italiani: sette volte presidente del Consiglio, più volte ministro, era l’esponente dell’ala conservatrice della Democrazia Cristiana. Controversa figura politica, Giulio Andreotti è stato artefice di passaggi cruciali nella storia del nostro Paese. Il ricordo di un parlamentare che lavorò con lui
Giulio Andreotti è morto all'età di 94 anni

La notizia della morte di Giulio Andreotti, avvenuta nella sua casa romana, intorno a mezzogiorno, sorprende Lucia Fronza Crepaz, già parlamentare della Democrazia Cristiana, che per 7 anni ha lavorato nello stesso Parlamento con lui. La sorpresa lascia spazio ai ricordi e alle analisi sul governo di uno statista controverso non solo nel panorama politico italiano ma all’interno del suo stesso partito.  «Non ha capito la storia e non ha saputo mettersi da parte» è l’affermazione ricorrente della nostra intervistata, che vuole però raccontarci dei suoi incontri personali e dei suoi ricordi con Giulio Andreotti.

Quando lo ha conosciuto per la prima volta?

«Ero una giovane parlamentare di 32 anni e nella Democrazia Cristiana ero praticamente una sconosciuta. Ho iniziato il mio mandato in luglio e i primi di dicembre ho trovato nella casella della posta parlamentare un pacchetto accompagnato da un biglietto firmato a mano "Giulio Andreotti". Aveva scritto: “Anticipo il mio regalo di Natale (era solito farlo alle donne del suo partito) per poterti fare gli auguri per santa Lucia”. Quello è stato il mio primo incontro con Andreotti: un foulard e un biglietto d’auguri, che rivelavano una presenza politica fatta di rapporti personali ricercati e coltivati con attenzione ai particolari».

Quali sono state, secondo lei, le linee guida dei suoi sette governi?

«Il film di Sorrentino "Il Divo" rivela in una frase quello che contava per Giulio Andreotti: «L’ho fatto per la libertà». Per la libertà, secondo lui, andava pagato qualunque prezzo. non c’erano ostacoli di sorta che potessero in qualche modo limitarla o condizionarla. Era il fine che poteva giustificare ogni mezzo. Potrebbe sembrare un proposito nobile, ma non credo sia giustificato fino in fondo neppure dalla storia italiana. Negli anni '70, Andreotti non ha capito, e con lui tanti democristiani, che la storia presto sarebbe cambiata, occorreva attrezzarsi per il dopo. Pensare che in quegli anni la libertà del Paese passasse ancora e soltanto dal mantenimento del potere della DC è stato un errore. Che paghiamo ancora. Alla fine salvare l’Italia era in realtà diventato salvare se stessi, garantirsi la sopravvivenza. Da qui il costante richiamo al pericolo comunista pur di salvarsi, ma non si poteva più continuare ad agire come una volta. Questo aveva capito Moro e pagò per questo».

Si è fatta un’idea sul coinvolgimento di Andreotti nella vicenda Moro e sul presunto patto con la mafia?

«Non so quale sia stato il suo livello di coinvolgimento in queste situazioni, certo è che la sua vicenda ci consegna un monito, anzi direi una necessità: occorre un limite ai mandati dentro le istituzioni. Per tutti! L’alternanza e il limite delle cariche istituzionali devono essere regole strutturali della democrazia. Un grande uomo può servire il Paese in tanti modi. Lo avrebbe fatto De Gasperi, lo ha fatto Dossetti».

Eppure uno dei processi che vedeva Andreotti imputato per associazione a delinquere, per i suoi rapporti poco limpidi con Cosa Nostra non lo ha visto assolto perché il reato è stato prescritto…

«Probabilmente per permettere di vincere le prime votazioni universali del nostro Paese, è probabile che uomini democristiani siano ricorsi a un qualche patto con la mafia, affinchè procurasse i voti necessari per far vincere la Repubblica sulla Monarchia e la Dc sul Pci. Quella mafia non era ciò che sarebbe diventata poi sanguinaria e stragista, era piuttosto una forma di stato parallelo in una regione limitata. Questi rapporti probabilmente si sono trascinati nel tempo. Non sono nati al tempo delle stragi, ma sono innegabili anche per le conseguenze che hanno avuto sugli uomini della corrente di Andreotti che, certamente in qualche modo li ha visti coinvolti… Vedi l’omicidio di Salvo Lima. La sua più grande responsabilità, a mio parere, fu quella di non essersi fatto da parte, di non aver lasciato alla democrazia (e anche alla Democrazia Cristiana!) la libertà di guadagnarsi i voti uno a uno e maturare così assieme alla gente senza retroscena inquietanti».

Riconosce dei limiti alla sua azione di governo?

«Ripeto, a mio parere, il suo più grande limite è stato quello di aver, in un qualche modo, bloccato la storia del suo partito e in qualche modo quella dell’Italia. Non ha favorito l’evoluzione del nostro Paese verso una democrazia matura. Moro aveva capito che bisognava reinventarsi le modalità di governo e quelle del rapporto con la gente. Aveva capito, ad esempio, che occorreva recuperare al governo l’altra grande forza politica del nostro ordinamento democratico, il partito comunista. Il compromesso storico era il primo necessario passo verso una reale alternanza, degna di una democrazia adulta. Andreotti non è riuscito ad andare oltre l'incubo comunista, avrebbe dovuto sacrificare sè stesso».

Si è trovata in contrasto con la linea politica andreottiana?

«Quando Andreotti, nel '92, è stato proposto come candidato alla presidenza della Repubblica ero angosciata. Temevo che il massimo punto di garanzia democratica del nostro Paese, la presidenza della repubblica, fosse occupata da una persona che aveva intessuto negli anni, nei suoi archivi, dossier su tutti, avrebbe tenuto sul suo tavolo, sempre e comunuque, un enorme "vaso di Pandora" che gli avrebbe procurato un enorme potere di veto. Non dico che avrebbe usato queste informazioni per ricattare le persone, ma certo quelle informazioni sarebbero state una potenziale minaccia che avrebbe frenato uno svolgimento della nostra vita democratica rivolto al futuro, tenendolo ancorato al passato. Per la prima volta mi sono trovata d’accordo con Pannella e, fin dalla prima votazione, ho votato con lui Scalfaro. La strage di Capaci fece poi confluire anche tutti gli altri voti su di lui. Avevo votato contro Andreotti come forma di protesta verso un certo modo di usare il potere».

Sembra che alla morte di Andreotti tanti di questi dossier saranno resi pubblici. C’è  da temere per l’assetto del Paese?

«Non credo proprio, ma credo che siano notizie necessarie al Paese. Andreotti ha celato informazioni e probabilmente protetto posti e persone. Penso che questi documenti aiuteranno una ricostruzione finalmente dovuta di tante vicende e di tante situazioni della Prima Repubblica. Credo che recuperare questa memoria aiuterebbe anche la Seconda Repubblica e forse la Terza a cui ci stiamo appressando: un popolo che non fa chiarezza nel suo passato non saprà mai ben gestire il suo futuro».

Ha esordito con un ricordo personale. Immagino ne conservi molti…

«Mi ha sempre colpito la sua cura attenta ai rapporti personali, perfino a quello con Dio. Quante volte l'ho incontrato a messa di prima mattina. Una volta ricordo mi raggiunse in cima all'Aula per chiedermi di appoggiare un provvedimento che non condividevo. Gli risposi di no, ma i nostri rapporti non cambiarono. Durante il Giulio VI votai contro la guerra in Iraq. Volli comunicarglielo prima di votare in aula. Mi rispose, pur essendo primo ministro: "La Dc è questo. Nel nostro partito ci deve essere sempre spazio per i ragionamenti, qualsiasi essi siano. C’è spazio e bisogno di persone che sappiano dire di no"».

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