I talenti di Lydia
«Da studentessa, ho vissuto con altre 23 ragazze presso la Harriet E. Richards Cooperative House, di Boston, un istituito che dà la possibilità di frequentare la Boston University, a donne che altrimenti non potrebbero permetterselo», leggo sul sito di Lydia Witt, sarta, educatrice di comunità e community-builder interculturale. «Ci prendevamo cura l’una dell’altra, come in una famiglia speciale, che ha modellato i miei valori e le mie aspirazioni. Vivere lì, ha significato contribuire alla costruzione di una comunità autogovernata basata sulla cooperazione, il rispetto e l’inclusione».
Sto leggendo la sua storia in metro, mentre cerco di raggiungerla presso la “Sala 1”, il Centro internazionale d’arte contemporanea che si trova in piazza di Porta San Giovanni, a Roma.
Dal sito, scopro che da Boston si è poi trasferita nella grande Mela, per lavorare nel negozio di costumi del New York City Ballet, dove ha collaborato con sarte originarie della Russia, della Polonia e dell’Ucraina, arrivate lì dopo il crollo dell’Unione Sovietica.
«Queste donne – scrive – hanno condiviso con me i segreti del fare tutù: come trasformare l’acciaio e la seta. Mentre lavoravamo, io le aiutavo con i test d’inglese per ottenere la cittadinanza, e festeggiavamo ogni successo con grappa e cioccolato. Da loro, ho imparato che riunire le persone attorno ad un interesse comune, come il cucito, facilita la conversazione e aiuta a superare le differenze, favorendo la comprensione reciproca».
È da questa esperienza che, mi sembra di capire, nasce in lei il desiderio di fare qualcosa di più. Per questo, si mette a studiare educazione internazionale per lo sviluppo. Unendo questi studi al suo sapere di sarta, si candida ad una borsa di ricerca Fulbright, ed è così che arriva a Roma.
Anche io sono arrivata. Fuori dalla metro di S. Giovanni, il caldo è torrido e odora di asfalto. Attraverso la piazza sotto un sole accecante. La Sala 1 si trova nel Complesso pontificio della Scala Santa, vicino alla basilica di San Giovanni in Laterano. Varco la soglia con un pensiero di gratitudine per il fresco leggermente umido che mi accoglie in galleria. Dentro la cripta, riconosco subito Lydia: giovanissima, alta, con i capelli biondi raccolti confusamente in una specie di coda. È vestita con un abitino classico anni ’50 ma cucito con una stoffa dalla fantasia tipicamente africana. Intorno a lei, macchine da cucire, un grande tavolo da lavoro, abiti variopinti di seta e cotone. Ci presentiamo e cominciamo la nostra chiacchierata.
«Una volta arrivata qui, ho collaborato con il centro diurno Joel Nafuma Refugee Center della Chiesa Episcopale,» mi spiega «lì, ho creato uno spazio di sartoria dove convergevano tanti bisogni: da una parte, chi voleva solo rammendare i pantaloni o il sacco a pelo; dall’altra, chi era un sarto professionista ma non possedeva una macchina per cucire. Sono rimasta colpita soprattutto da queste persone che avevano lavorato come sarti nel loro Paese ma che non riuscivano a mettere in pratica la loro arte qui… Ho pensato che le persone che avevano queste competenze andavano valorizzate, messe in luce. Ho desiderato che, come le mie amiche del New York City Ballet, avessero l’opportunità di fare del cucito il loro lavoro, contribuendo a costruire la comunità».
Mentre parliamo, Issa, suo marito, un altissimo giovane originario del Burkina Faso vestito di un elegante abito tradizionale di seta lilla, intrattiene una signora americana venuta a visitare il laboratorio, mentre Lassina proveniente dal Mali, interrompe il suo lavoro alla macchina da cucire per trovare il filo del colore giusto da abbinare ad una stoffa bianca, turchese e gialla.
«Volevo che la gente li vedesse in quanto sarti, non solo come rifugiati…» continua il suo racconto Lydia, «Così, è nata l’idea di creare un’esperienza per i viaggiatori di Airbnb: siamo in Italia e qui convivono varie nazionalità, se siete curiosi di conoscerci, vi proponiamo di creare un abito insieme a voi, anche usando le stoffe vendute al mercato locale di Piazza Vittorio. Potrete conoscere persone di altre nazionalità attraverso la sartoria».
La Sewing Cooperative nasce così, cercando di mettere insieme talenti diversi, persone e idee, creando qualcosa di nuovo e di bello.
«Io non ho tutte le risposte,» spiega Lydia «non conosco tutti i segreti della sartoria. Ma posso mettere in comune quello che so, e così possono fare anche gli altri. Per questo, il progetto si chiama “cooperativa”, perché tutti contribuiscono con qualcosa, collaborando».
Oggi, la Sewing Cooperative coinvolge altri quattro sarti, provenienti dal Camerun, dal Senegal, dal Gambia e dalla Costa d’Avorio.
L’incontro con la “Sala 1” è avvenuta grazie alla direttrice Mary Angela Schroth che li ha invitati a creare un laboratorio di moda nella galleria, dove i visitatori possono incontrare i designer, conoscere il mondo dei rifugiati, la loro cultura e la loro storia. Durante la visita, il pubblico ha la possibilità di scoprire da vicino i tessuti africani, le tinture naturali tipiche dell’Africa occidentale, e vivere un’esperienza di co-progettazione di un capo personalizzato e su misura. Lydia e il team della Sewing Cooperative saranno lì fino al 15 settembre, garantendo a tutti un’immersione nella bellezza fresca di un lavoro creativo condiviso, oltre ogni cliché.