I sopravvissuti

Dalla Siria alla Groenlandia, due storie emozionanti, testimoni di una umanità che non si arrende agli orrori e alle privazioni.
Bambini

Come La masseria delle allodole, diventata un best seller e un film dei fratelli Taviani, anche La strada di Smirne – secondo titolo della trilogia che Antonia Arslan sta scrivendo sulla tragedia del popolo armeno – attinge alle testimonianze orali più che alle cronache (anche se precisa è la ricostruzione storica).

È una scelta della scrittrice padovana che, nutrita fin dall’infanzia di racconti su quel massacro nel quale persero la vita anche alcuni suoi parenti originari dell’Anatolia, s’è voluta fare “cantastorie” di sofferenze ed eroismi ignoti ai più, che le si erano sedimentati nell’anima. E che lei esprime con sensibilità di donna che sugli orrori stende un velo di umana pietà, senza giudicare, lasciando che siano i fatti stessi a parlare: quasi un lamento funebre elevato al cielo, a chi può ascoltare, accogliere e trasfigurare ogni dolore.

 

Ne La strada di Smirne (Rizzoli), che narra l’epilogo delle deportazioni degli armeni nel 1916, ritroviamo dopo una fuga rocambolesca alcuni personaggi della Masseria: Sushanig e i suoi quattro figli, che lasciandosi dietro le spalle lo sterminio dei propri cari e di tante altre famiglie armene, sperano di ricostruirsi un’esistenza in Italia (ma solo i ragazzi raggiungeranno a Venezia lo zio Yerwant e i due cugini adolescenti).

Esuli anch’essi ma in Siria, la lamentatrice greca Ismene, il prete Isacco e il mendicante turco Nazim, sopravvissuti esempi di una umanità positiva, capace di riconoscenza, di pietà e di sacrificio, da Aleppo, dove si dedicano a prendersi cura degli orfani armeni del genocidio, riparano – nell’illusione di un definitivo approdo – in quella Smirne che, emblema dapprima di tolleranza, di apertura al diverso, dopo che il furore turco sbaraglierà la blanda resistenza greca, verrà abbandonata al suo destino dall’indifferenza delle potenze europee.

E mentre si consuma il suo destino di città nel rogo finale, l’autrice, che queste sparse vicende ha sapientemente intrecciato come fili di un antico arazzo, ritrova quasi l’afflato di un antico aedo: «Ora voi sprofondate nel fuoco di Smirne, Ismene, dolce sorella, Isacco, fratello; e con voi sprofondi Nazim l’astuto, il mendicante dai molti raggiri. Sprofondate nel gorgo, travolti dal Male, oscuro e occhiuto compagno delle menti degli uomini. Le vostre anime leggere sospinte da un vento che non dà tregue volteggiano, come farfalle perdute scendendo giù nell’abisso. Ma ecco, l’angelo ardente sguaina la spada luminosa dalla punta accecante e vi riprende ad uno ad uno dal vuoto turbine, portandovi Altrove, ai prati eterni, verdeggianti».

A quando il terzo volume di questa bella e dolente saga che ha avuto il merito di ravvivare l’interesse su una pagina oscura della storia contemporanea e sul calvario di tutto un popolo?

 

Non la grande storia o le storie tramandate, stavolta, ma la fantasia ha ispirato allo scrittore danese Jorn Riel il bellissimo romanzo Prima di domani (Iperborea). Fantasia suscitata dalla scoperta, fatta durante un suo viaggio nel nord-est della Groenlandia, dei resti di una donna adulta e di un bambino in un isolotto disabitato.

Lo scrittore – che colloca il suo racconto intorno al 1860 – immagina che, dopo una pesca prodigiosa della sua tribù, l’anziana Ninioq si sia offerta di andare ad essiccare la carne per l’inverno sulla piccola isola di Neqe assieme a Manik, il nipote preferito di otto anni. Entrambi passano settimane felici: la nonna, vicina ormai a lasciare questa terra, insegnando al piccolo tutto ciò che è necessario ad affrontare l’esistenza in quelle lande desolate e inospitali, e il nipote imparando ad essere un bravo cacciatore, rispettoso degli animali e della natura.

Lo scrittore ci coinvolge nella vita di una comunità ricca di valori religiosi e capace, nella saggezza acquisita nella dura lotta per sopravvivere, di affrontare con serenità la morte.

Ma l’inverno si avvicina e nessuno si affaccia a riportare i due nell’accampamento. Cosa può essere accaduto? Sempre più inquieta, l’anziana donna che già da qualche tempo vive oppressa da oscuri presagi, decide di affrontare la traversata in barca col nipotino. Ma al villaggio si rivela l’orribile realtà: l’accampamento è deserto e pieno di cadaveri: tutti – uomini, donne e bambini – sono stati trucidati. Solo loro due sono ancora vivi.

Pian piano la vecchia Ninioq realizza che causa di quello sterminio devono essere stati quei misteriosi “spiriti bianchi” di cui si tramandava che, giunti con una strana imbarcazione senza remi, avevano portato oggetti meravigliosi mai visti e, accolti dai socievoli e ospitali esquimesi (oggi si chiamano inuit), erano rimasti attratti soprattutto dalle pelli degli animali da loro uccisi. Pelli di cui non rimane traccia nell’accampamento: l’avidità, dunque, causa della strage operata dagli appartenenti a quella razza diversa.

Non rimane a Ninioq che lasciare quel luogo di morte e ritornare sull’isolotto cercando, nella solitudine resa ancor più opprimente dalla certezza di essere ormai i soli del loro popolo, una improbabile sopravvivenza alla natura inclemente.

Nessuno saprà mai cosa ci facevano quelle ossa nell’isolotto dimenticato. Ma questa storia ispirata dallo scontro tra due civiltà, proprio perché così verosimile, ci abiterà a lungo nell’animo. Come il romanzo della Arslan.

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