I siriani dimenticati nei campi profughi
La voce di Giacomo Santini, senatore italiano (Pdl) con due mandati europei alle spalle, ora vicepresidente vicario della Commissione immigrazione e rifugiati del Consiglio d’Europa è accorata. Le sue parole sono un fiume in piena mentre racconta della visita in due dei sette campi profughi allestiti in Turchia, per le migliaia di siriani che hanno abbandonato il loro Paese per timore di ritorsioni da parte del governo di Assad. Quella che doveva essere una soluzione temporanea, limitata ai mesi estivi, è diventata invece una condizione stabile, che non vede all’orizzonte prospettive di soluzione.
La delegazione europea «A fine luglio siamo andati insieme ad altri quattro deputati europei per verificare le condizioni di vita dei rifugiati e siamo tornati giovedì. Il nostro era un mandato umanitario – racconta Santini –, ma dopo le dichiarazioni e le storie ascoltate era inevitabile che diventasse un mandato politico in rappresentanza dei 47 Paesi del Consiglio».
I racconti dei più di cinquanta profughi ascoltati durante la visita sono vivissimi nella memoria di Santini. «Non sono dei disperati e dei poveracci – commenta il senatore –, ma si tratta di avvocati, medici, commercianti: persone con una professione e una casa, che non hanno alcuna intenzione di lasciare il proprio Paese. Chiedono solo una svolta democratica».
I profughi Non vogliono aiuti umanitari, né tantomeno emigrare, i siriani ospitati nel campo di Yayladagi, e lo stesso quelli di Altinozu, ad appena tre chilometri dalla frontiera con il loro Paese. Agli occhi del mondo sono però diventati dei rifugiati, di entità non indifferente: diecimila. La loro unica colpa è aver partecipato alle dimostrazioni di piazza e l’essere passati in poche ore da semplici dimostranti a oppositori del regime, con tanto di schedatura.
Tanti di loro hanno visto, prima di fuggire, amici e parenti uccisi e torturati. E si aspettavano, come inevitabile, la sanguinosa repressione cominciata il primo giorno di Ramadan. «Bashar al-Assad temeva che gli incontri di preghiera nelle moschee diventassero, in realtà, sediziose assemblee contro il suo governo ed è per questo che ha impedito questi raduni attaccando direttamente la folla», racconta uno dei profughi. Nessuno di loro crede agli annunci pacificatori del capo di governo siriano: «La partecipazione allargata ad altri partiti è mera propaganda – per gli scampati –, perché incontra un serio ostacolo nell’articolo 8 della Costituzione, che riconosce come unico partito legittimato a governare quello Baath».
Le violenze Anche i proclami sull’apertura democratica si sono rivelati una trappola per i profughi che hanno scelto di tornare in patria. «La polizia andava dai nostri parenti per convincerli a telefonarci rassicurandoci sulla situazione del Paese. Alcuni, fidandosi, hanno deciso di tornare, ma alla frontiera erano attesi dai militari che li hanno arrestati e torturati. E parecchi sono anche morti». I particolari raccontati davanti alla delegazione dei vari Paesi europei sono stati drammatici.
Il comportamento della polizia e dell’esercito, che è stato elogiato da Assad come baluardo a difesa del Paese, viene descritto con ben altri toni dalle donne. «Entrano in casa e fanno cose da far vergognare il mondo intero». Il velo che le copre fino agli occhi non riesce a nascondere la loro determinazione nella denuncia delle violenze. «Non sono povere donne sottomesse, poco istruite, come erroneamente crediamo, ma sono giovani preparate che parlano più lingue e chiedono l’intervento deciso dell’Onu e dell’Ue», racconta ancora Santini. «Volete aspettare che ci uccida tutti? Tutte le volte che manifestiamo sappiamo bene che il giorno dopo verranno a cercarci e non ci sarà scampo. Abbiamo già visto cosa ha fatto il padre: ha ammazzato 450 mila persone e Assad ha già ucciso donne e bambini. Per noi è un leader delegittimato», concludono.
Non temete la democrazia araba Chiedono a gran voce l’intervento internazionale per costruire un nuovo governo e segnali concreti di solidarietà. «Non dovete aver paura della democrazia dei Paesi arabi. Ci sono problemi, è vero, ma qui vogliamo elezioni democratiche», spiega un giovane che dimostra al di là dell’età, grande maturità politica. A livello internazionale l’incertezza sul da farsi regna soprattutto dopo il rapporto commissionato dalla Lega araba, che ha registrato milizie esterne al Paese infiltrarsi sul territorio e provocare azioni sanguinose, al pari di quelle attribuite al governo di Assad.
Il governo turco I profughi sono preoccupati per la loro permanenza in Turchia e vogliono tornare alla normalità, soprattutto per i bambini. Se l’estate nelle tende, pur nuovissime, non è stata certo gradevole per le alte temperature, l’inverno, per il freddo gelido, si è rivelato una vera e propria tragedia, a detta di varie ong che lavorano sul territorio.
Il governo turco, da parte, sua aveva pensato di trasferire i rifugiati in casette prefabbricate e in container nella regione di Kilis, diversi chilometri verso l’interno, rispetto alla zone di frontiera in cui sorgono i campi di tende. Purtroppo, tra ottobre e novembre, cinque terremoti in cinque settimane, con le loro tremila scosse, hanno ritardato notevolmente la costruzione di questi centri e provocato il crollo di numerosi elettrodotti, con frequenti interruzioni di energia elettrica e di acqua. Le condizioni di vita già precarie si sono aggravate soprattutto per i vecchi, i bambini e gli ammalati. La Mezzaluna rossa turca ha distribuito coperte aggiuntive a 900-1000 persone e in uno dei campi, donne e bambini sono stati spostati temporaneamente in un edificio scolastico, ma ora sono tornati in tenda. Chi soffre di più per le rigide condizioni metereologiche sono i residenti dei campi della regione di Hatay: per loro sono state previste altre soluzioni abitative nella parte orientale del Paese.
Pur non avendo aderito ad alcuni capitoli della convezione di Ginevra sullo stato dei rifugiati, la Turchia, verso questi “invitati” – così li considera il vicegovernatore che ha accompagnato la delegazione europea –, sta rispettando tutte le norme sui diritti umani: dai pasti all’assistenza medica. «Certo è che la parola “invito”, indica comunque una solidarietà a termine», conclude Santini. E tutto questo mentre in Siria la parola fine sembra ben lontana.