I silenzi di Cuma

Sede della mitica Sibilla, l'antica colonia greca è tra i luoghi più suggestivi e solitari dei Campi Flegrei, «dove di tempo in tempo è necessario ritornare»
Campi Flegrei

Non è agevole, per chi non è dotato di mezzi propri, raggiungere  Cuma, la più antica colonia fondata dai greci in Italia e in Occidente (VIII sec. a.C). Dista infatti alcuni chilometri la più vicina fermata delle Ferrovie Cumana o Circumflegrea da cui occorre prendere l’autobus (quando arriva) che ti lascia ai piedi della rocca: alcune centinaia di metri a piedi nella campagna, piacevoli se il sole non scotta come adesso… Un luogo così celebre e così poco accessibile? Ma forse è meglio così. Forse è preferibile che la sede della mitica Sibilla non sia invasa da orde di turisti come avviene a Pompei e rimanga avvolta nella sua isolata bellezza, lontano dai frastuoni della gente e dei venditori di souvenir.
Rivedo Cuma così, dopo anni che ci mancavo, diretto all’acropoli la cui cupola d’origine vulcanica si eleva di 80 metri sul quel mare che in antico la circondava da tre lati, mentre ora risulta arretrata per il progressivo insabbiamento del litorale.  Nei pressi della biglietteria, un chiacchierio di custodi è l’unico suono che si sperde nel silenzio agreste. Visitatore non unico della mattinata (ho adocchiato sì e no due-tre turisti, subito persi di vista), mi addentro in gallerie le cui volte in qualche caso hanno ceduto, lasciando penetrare nell’umida tenebrìa lame di luce. Colombi cumani, disturbati dal mio passaggio, interrompono il loro tubare nei recessi di queste cavità che forano in lungo e in largo il tufo grigio-giallastro, e s’involano in un rumoroso sbatter d’ali.

Cuma-Kyme tutta per me. Ed eccomi a ripercorrere il celebre “antro della Sibilla”, o almeno quello ritenuto tale dal suo scopritore, il grande archeologo Amedeo Maiuri, che negli anni Trenta volle riconoscere in esso il luogo descritto da Virgilio nell’Eneide: un lungo corridoio a sezione trapezoidale che, secondo studi recenti, parrebbe invece un camminamento militare, parte delle fortificazioni dell’antica colonia, che doveva unire il porto ora interrato all’acropoli. Così come appare oggi è il risultato di più interventi, che vanno dall’epoca greca a quella paleocristiana. Eppure, come dimora della sacerdotessa del dio Apollo, si potrebbe immaginare qualcosa di meglio? Almeno per quel che mi riguarda, l’idea che sia stato questo il vero “antro” nel quale ella elargiva i suoi vaticini resiste ad ogni scientifica considerazione.

Nel corridoio semibuio, illuminato solo da varchi laterali, il ronzio lamentoso di centinaia e centinaia di tafani in cerca di frescura mi fa pensare al sussurrio delle anime evocate dalla Sibilla che, una volta giunto nell’ambiente terminale, immagino lì rattrappita sul suo seggio e tutta avvolta in un fitto velo per nascondere la sua decrepitezza immortale: fantasie ipogee, dopo le quali esco all’aperto per risalire l’antica strada lastricata che conduce ai due templi maggiori: sulla terrazza inferiore quello di Apollo, sulla superiore quello di Giove. Entrambi rifatti in epoca romana e successivamente trasformati in luoghi di culto cristiano nell’Alto Medioevo.

Superba è da quassù la visuale sulla distesa del mare e la duna costiera con la tipica macchia mediterranea, residuo di una più vasta foresta, la Silva Gallinaria dei romani. Quasi viene da dimenticare il presente coi suoi problemi di inquinamento e discariche che affliggono questa costa flegrea: tutto da qui sembra intatto, primordiale, come doveva essere all’arrivo dei primi coloni greci. Sul mare grava ancora una spessa nebbia: forse nel 915 d.C., approfittando di una cortina simile, le navi saracene si avvicinarono indisturbate per saccheggiare questa città già ambita dagli etruschi, occupata dagli osco-sanniti e poi dai romani, e via via, lungo i secoli, assediata da ostrogoti, bizantini, longobardi, finché l’impaludamento e la conseguente malaria ne decretarono l’abbandono da parte della popolazione.
Di tante lotte e traversie ora rimane solo l’eco nella storia, il sibilo del vento tra i mirti, i corbezzoli, i pini, i lecci. Ora tutto è pace.

Degli immania templa descritti da Virgilio rimane ben poco: i possenti basamenti in tufo crivellati di sepolture e qualche resto delle enormi colonne. Circondati, assediati dalla vegetazione rigogliosa, alzano al cielo mozziconi di mura. Accanto ad essi, i resti di sacelli minori, che dell’intera rocca facevano un’unica area sacra. Nel santuario maggiore, il cosiddetto tempio di Giove, ancora ben conservato è il battistero dove un tempo i catecumeni cristiani ricevevano l’acqua del battesimo. A  cielo aperto, ora accoglie senza ostacoli la pioggia. Sempre acqua, dono di Dio.
Dalla dimora degli dei ridiscendo a quella degli uomini: la città bassa, col foro e il Capitolium, le terme (le uniche visitabili) e – in attesa di ospitare il futuro museo – la Masseria del Gigante, un’antica casa colonica insediata su un tempio e così detta perché vi venne rinvenuto il torso gigantesco di una statua di culto, ora al Museo archeologico di Napoli.

Fuori dell’area archeologica e pertanto non accessibile al pubblico, appena si riconosce l’anfiteatro, la cui arena è oggi tutta verdeggiante di vigneti e di altre colture. Chissà se potrò darci un’occhiata un giorno. Certo Cuma è uno di quei luoghi dell’anima dove di tempo in tempo è necessario tornare.

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