I segreti di Michelangelo
Schiavi del cliché. Lo sono i miti, come Michelangelo o Caravaggio o van Gogh. Lo possiamo essere ciascuno, quando la pigrizia del pensare e dell’amare impediscono di cogliere ciò che va oltre l’esteriorità di una persona. Ben venga allora la rassegna romana su disegni, poesie e lettere del Buonarroti, a seguire il percorso biografico del Genio e a rivelarne il carattere complesso, contraddittorio spesso. “Raschiando” il detrito della fama, si corre infatti il rischio (fortunato) di un incontro veramente ravvicinato con l’artista solitario e scontroso per eccellenza. Ha 22 anni quando scrive al padre Ludovico da Roma che non sa quando torna perché “non ò potuto ancora achonciare (sistemare, ndr) e’ fatti mia col cardinale (Riario, ndr)”. Un documento rivelatore di due aspetti ricorrenti nella vita dell’artista: i rapporti continui con i familiari (spesso pesanti) e quelli ancor più difficili con i committenti (il Riario aveva commissionato e poi rifiutato il Bacco). Nello stesso anno, lo spirito caustico fiorentino si fa sentire in una delle prime – saranno numerose – poesie, un sonetto: “Qui si fa elmi di calici e spade/ e ‘l sangue di Christo si vend’a giumelle… “, dove il giovane artista ironizza sulla Curia di papa Borgia con una forza morale che tradisce l’influenza di Savonarola. Nonostante questo, la vita lo mette di continuo in contatto con i papi, specie quel Giulio II “il terribile”, con cui lo scontro era inevitabile, dato il carattere dei due. Cosa gli siano costati in fatica fisica e psicologica i quattro anni della Volta sistina lo confida ad un sonetto indirizzato ad un amico pistoiese, Giovanni: “I’ ho già fatto un gozzo in questo stento”, accompagnato da una autocaricatura in cui si ritrae in piedi a dipingere, rovinandosi per anni la vista. Uno di quei momenti di depressione, ricorrenti in Michelangelo, ma che daranno frutti altissimi nell’arte. Ma non ci sono solo poesie, nella sua vita. Ci sono gli appunti tecnici relativi ai marmi da “cavare” a Pietrasanta per San Lorenzo a Firenze o per la Tomba di Giulio II, negli anni venti e trenta del Cinquecento, con le puntigliose note delle spese e delle misure, talvolta accompagnate da un secco biglietto come questo:” “Quegli uomini che io non ò chiamati a llavorare… non aranno la giornata”: sbrigativo e sgrammaticato, perché Michelangelo aveva problemi con l’ortografia. Questi ultimi però li risolveva con l’aiuto degli amici, quando si trattava di messaggi a personalità come il cardinale Medici: è curioso osservare come in queste lettere l’artista – e continuerà per tutta la vita – tendesse a fare la vittima, pur di seguire i propri interessi, “sistemando” a modo suo la verità… Astuzie poco grandi di un Grande, che lo rendono vicino a noi. E svelano da quale travaglio nascano creazioni indimenticabili come la Cleopatra, il celebre disegno per l’amico Tommaso de’ Cavalieri di cui il recente restauro ha rivelato ben due versioni. Siamo sul 1535, l’artista è sui sessant’anni. Il disegno è lo specchio della sua anima complessa: se da un parte la Cleopatra, dal volto nobile e reclinato classicamente, è bellezza simbolica fuori dal tempo, dall’altra è ritratta frontalmente con gli occhi terrorizzati, quasi come le figure che Michelangelo stava preparando per il Giudizio. Un’opera concepita per un dono, cui l’artista affida il tormento e l’estasi dell’anima, dibattuta fra la terra e l’anelito spirituale. Luce ed angoscia: con questi sentimenti opposti, Michelangelo anziano si inserisce nel circolo di Vittoria Colonna e dei suoi amici, i cardinali Pole e Morone, che negli anni durissimi della crisi luterana auspicano la riforma della chiesa, senza rompere con la tradizione, ma tuttavia fortemente spiritualizzandola. Forse questo spiega perché l’artista riduca i temi dei suoi lavori ai disegni o sculture sul Cristo crocifisso e la Pietà, concepiti come preghiere illustrate, da inviare agli amici “spirituali” o come meditazione personale. Sono capolavori assoluti: il Cristo “urlante” (di cui si ricorderà Guido Reni in una celebre pala), dalla fisicità ancora potente; la “Mater dolorosa”, dritta seppur straziata, di cui si faranno infinite repliche devozionali per secoli, come testimonia la stessa mostra con pezzi di oreficeria e smalti. Commuove, fa tenerezza, l’ultimo autografo dell’artista al prediletto nipote Leonardo a Firenze: un “grazie” per due caciotte inviategli. Lo firma con mano malferma, a 88 anni: “Io Michelagniolo Buonarrotj” il 28 dicembre 1563. Con quell’inciso “Altro non m’achade” (non ho nient’altro da dire, ndr), di un uomo col pensiero già da un’altra parte. L’ENIGMA DI MOSÈ Chi oggi sale a San Pietro in Vincoli a vedere il Mosè, in parte imprigionato dalle impalcature del restauro, farà nuove scoperte. La tomba infatti non è lavoro di poco valenti collaboratori, come s’è creduto. Balza agli occhi ora la figura giacente del papa – autografa – in una posa straordinaria: l’energico Giulio sta uscendo dal letargo, il volto e le mani forti sgranati dal sonno: una resurrezione a nuova vita. Il papa è affiancato da un Profeta e da una Sibilla, ossia dall’età pre-cristiana, mentre al di sotto Mosè è fra due donne,Vita attiva e Vita contemplativa: una sistemazione opposta a quella degli anni Dieci, quando le figure pre-cristiane, con gli Schiavi oggi al Louvre, erano in primo piano. Il Mosè, inoltre, era in posizione frontale; oggi, invece, la testa leonina guarda una cosa che solo lui può vedere e sta per seguire. Cambiamenti che nascono dal momento spirituale dell’artista, che cerca conforto nel nucleo attorno a Vittoria Colonna. È il cardinale inglese Pole, a quanto sembra, il leader, nuovo Mosè, il “papa angelico” che questa cerchia vede come possibile guida di una chiesa rinnovata. È quindi nell’equilibrio tra fede ed opere – Lia e Rachele – che si può risorgere a nuova vita, sotto lo sguardo di Maria, il cui bambino tiene in mano un cardellino, simbolo della Passione. Certo, contemplando il Mosè nell’atto di alzarsi e il vecchio Giulio in quello di risvegliarsi a vita ben diversa dalle battaglie che aveva guidato, si intuisce di più il messaggio del Buonarroti. Su questi marmi e da questi corpi luminosi, infatti, trapassa fino a noi il suo grido di speranza nel “porto sicuro” della fede.