I rifugiati del conflitto Israele-Palestina
Nell’impossibilità di dare una sintetica visione globale del conflitto israelo-palestinese, di un problema così complesso e di lunga durata, cerco di dire qualcosa solo su quella fascia della popolazione che oggi ne soffre maggiormente le conseguenze e che, proprio per questo motivo, merita la nostra massima attenzione. Mi riferisco ai “rifugiati” palestinesi.
Origini del problema
Il sionismo è considerato un movimento nazionalista ebraico. E così lo definì Theodor Herzl, il suo ideologo e primo presidente, nel suo libro Lo Stato ebraico del 1886, rivendicando la creazione di uno Stato ebraico. Soltanto che, nel caso degli ebrei, essi non avevano un territorio sul quale costruire il loro Stato. E questo da quando i romani repressero duramente la loro ultima grande ribellione contro Roma guidata da Bar-Kokhba nell’anno 135, vivendo da allora nella diaspora la maggior parte di essi.
Ecco allora che il sionismo, già dalle sue origini, prevedeva la necessità di possedere un territorio e la sua colonizzazione. Ed è proprio con questo scopo che da più di cento anni fa diverse ondate di ebrei sionisti sono arrivati in Palestina. Al loro arrivo, costatarono che la Palestina era occupata da altri, e quindi il loro sogno di vivere in «un paese senza popolo per un popolo senza patria» era un obiettivo da raggiungere nel tempo. Un problema che Herlz aveva previsto di dover affrontare già prima ancora di orientarsi alla Palestina, come si legge nel suo diario del 1895: «Giugno 1895. Dobbiamo espropriare con delicatezza la proprietà privata dello Stato che ci è stata assegnata… Cercheremo di incoraggiare la popolazione con poche risorse ad attraversare la frontiera, fornendo loro lavoro nei paesi di transito e negando ogni occupazione nel nostro paese… I proprietari terrieri verranno dalla nostra parte».
Dal canto loro, i sionisti appena arrivati acquistavano terreni dai grandi proprietari terrieri assenteisti, che risiedevano a Gerusalemme o in Siria, espellendo gli arabi che li coltivavano e che dovevano trovare lavoro nelle città.
Va aggiunto che le potenze straniere sono intervenute fin dall’inizio per sostenere il progetto sionista, ed è questo proprio quello che lo ha reso possibile. Infatti, già nel 1917 l’Inghilterra, che combatteva contro l’Impero Ottomano, sembra che, strategicamente, aspettandosi di ricevere l’appoggio degli ebrei di tutto il mondo, rendesse pubblica la dichiarazione dell’allora ministro degli esteri britannico, Balfour, con la quale la corona si impegnava ad aiutare alla creazione di un focolare ebraico in Palestina. Anche nel mondo cristiano ci sono alzate e si alzano non poche voci a favore di questo progetto. David Lloid George, che nel 1917 era il primo ministro e che fu chiave per la dichiarazione Balfour, ne è un esempio. Oggi, poi, vediamo gli evangelici americani sostenere anche economicamente gli insediamenti ebrei facendo una lettura particolare della Bibbia: in pratica, essi si identificano con i religiosi ultraortodossi sionisti che affermano che con lo spandersi del dominio ebraico si accelera la venuta del messia e dell’armonia universale.
Con la sconfitta dell’Impero Ottomano, inglesi e francesi si spartirono il Medio Oriente rifacendone la mappa politica, lasciando a favore degli inglesi la Palestina, staccata dalla Siria per i francesi. Il fatto è che la Palestina era abitata da una maggioranza musulmana, e da minoranze di cristiani ed ebrei in piena armonia e tutti di lingua araba. Inoltre, gli ottomani, nella costituzione del 1876, concessero pari cittadinanza a tutti i sudditi. L’Inghilterra, con questa dichiarazione, dando validità politica solo agli ebrei spazzò via la possibilità di costituire uno Stato sovrano plurietnico e plurireligioso che sarebbe stato il suo processo naturale.
La Società delle Nazioni fondata nel 1920 introdusse nella sua carta costitutiva di assegnare all’Inghilterra il mandato di gestione della Palestina e dell’Iraq «finché questi paesi non saranno in grado di andare avanti da soli» e riguardante il mandato per la Palestina, fa propria la dichiarazione Balfour assegnandogli come obiettivo: «la creazione di un focolare nazionale per il popolo ebraico». Riconosceva quindi in futuro ai sionisti il diritto di governare il Paese, senza fare alcun riferimento agli abitanti locali ai quali si riconoscevano i diritti sociali e religiosi ma non quelli politici.
Molti immigrati ebrei non erano tanto interessati ai lavori agricoli, ma a proseguire tutti i tipi di attività professionale che esercivano nei paesi di origine. Nel 1903 aprirono una banca, la Anglo-Palestine bank (oggi banca Leumi) e un istituto di credito cooperativo, raggiunsero una certa indipendenza nel campo della sanità e dell’amministrazione della giustizia. Nel 1914 fondarono l’unità educativa sionista, con l’insegnamento dell’ebraico già nella scuola materna. In tutti i loro negozi, raramente assumevano dipendenti non ebrei.
Comunque, per il movimento sionista l’interesse fondamentale era l’acquisizione della terra. Alla fine degli anni trenta, nell’Agenzia Ebraica, sotto la direzione di Ben-Gurion, il 40% delle spese erano destinate all’acquisizione di terreni, e il 75% degli investimenti erano destinati alla colonizzazione agricola. Dato il disaccordo con gli ebrei religiosi ortodossi di Gerusalemme, crearono la loro città secolare, Tel Aviv, che divenne il centro sionista del paese. Le iniziali reazioni degli arabi contro i coloni sionisti riflettevano il loro attaccamento naturale e umano alla terra di cui si vedevano spossessati, ma non una deriva nazionalista.
Dopo la prima guerra mondiale, nel 1920 a Gerusalemme e nel 1921 a Jaffa ci furono azioni violente, anche con morti, contro l’acquisto massiccio di terra la quale cosa cambiava radicalmente la loro vita. Gli inglesi, per acquietare in qualche modo gli arabi, presero serie decisioni per limitare il numero di nuovi coloni, ma i sionisti trovarono modi di superare parzialmente il problema.
Nel 1929, i palestinesi che si trovavano forzatamente a vivere alla periferia delle città, furono i responsabili di una violenza contro gli ebrei a Gerusalemme che si diffuse in tutto il paese e che causò la morte di 300 ebrei e di altri 300 arabi. Gli inglesi mandarono una commissione per esaminarne le cause, la quale, vista la triste situazione degli arabi proposero come soluzione lo sviluppo del paese. Nel frattempo, però, il nuovo governo britannico si orientò a guardare ai bisogni economici della metropoli, abbandonando ogni investimento nelle colonie. I responsabili in Palestina, vedendo lo sviluppo in tanti campi di cui i sionisti erano capaci, pensarono allora di dare supporto a loro, non riflettendo che questo non rappresentava un beneficio all’intero paese, arabi compresi.
L’avvento del nazismo e del fascismo in Europa portò all’arrivo di un gran numero di ebrei. L’impoverimento degli arabi dovuto provocò una grande rivolta nel 1936 anche con azioni terroristiche contro gli inglesi che accusavano di non averli tenuti in considerazione nel disegno politico del paese, guidato dal mufti di Gerusalemme e da nobile lignaggio Amin Al-Husseini. Questi furono puniti crudelmente, anche con 100 condanne a morte, con 5.000 morti, fino a sottometterli nel 1939, sostanzialmente disarmati. Durante la rivolta, i sionisti collaborarono con gli inglesi nella lotta contro gli arabi con il loro corpo armato Ha-Hagana, e durante la seconda guerra mondiale si schierarono dalla parte degli alleati contro i nazisti.
Comunque, dopo la fine della guerra, nel 1946, gli inglesi subirono attacchi terroristici anche da parte degli stessi sionisti, ansiosi di avere un potere effettivo e di aprire completamente le porte all’ingresso di nuovi colonizzatori, come con la distruzione dell’hotel King David, residenza dei capi militari britannici, dove morirono 91 ufficiali.
L’Inghilterra, vedendosi impotente nel portare ordine e pace nel paese, nel febbraio 1947 decise di cedere il controllo all’Organizzazione delle Nazioni Unite recentemente creata. Il movimento nazionale palestinese era pronto ad accettare gli ebrei come minoranza all’interno di uno stato arabo. Le N.U. dopo aver ascoltato le conclusioni di una commissione di undici paesi, in novembre resero pubblica la decisione di dividere il paese in due parti, grazie all’approvazione di Russia, Inghilterra, USA e di altri paesi tra cui la Francia. La spartizione delle Nazioni Unite assegnava agli ebrei il 55% del paese, sebbene in totale rappresentassero solo il 30% della popolazione. Doveva entrare in vigore il 14 maggio 1948, data in cui gli inglesi avrebbero dovuto lasciare il paese.
Guerra del 1948 e nascita dei rifugiati
Arriviamo ora al momento decisivo del problema che ci occupa. Ci avvaliamo degli studi realizzati dai “nuovi storici”, così chiamati quegli storici dediti allo studio di questo anno cruciale dopo che, nel 1998, 50 anni dalla fine della guerra, Israele ha reso pubblici gran parte dei documenti che fino ad allora erano archiviati come segreti. Limitandoci ai fatti, come vogliamo fare, vediamo che quelli riportati da tutti concordano sostanzialmente e indipendentemente dalla lettura ideologica che ne fanno, pro o antisionista, con la quale l’uno o l’altro si identifica.
Ebbene. Risulta che la distribuzione delle NU non soddisfaceva a nessuno. Né agli ebrei perché hanno scoperto che nel 55% loro assegnato, pur essere stato scelto tra quelle zone da loro più colonizzate, non rappresentavano una maggioranza sufficiente per consentire lo stabilimento di uno Stato democratico controllato da loro. Per gli arabi, che la considerarono una grande ingiustizia del mondo occidentale e, subito, gruppi di contadini attaccarono alcuni trasporti di ebrei e qualche kibbutz, provocando tre o quattro morti. I sionisti non solo reagirono per rappresaglia, ma trovarono in esso la giustificazione per i loro attacchi, per cui già nel febbraio 1948 avevano distrutto tre villaggi, espellendone gli abitanti davanti agli occhi del Regno Unito e del mondo intero. Nei mesi successivi e prima del 14 maggio, quindi ancora formalmente sotto mandato britannico, i sionisti iniziarono un’azione generale di pulizia etnica nel territorio loro assegnato. Con la loro milizia armata, Ha-Haganà, occuparono rapidamente circa 300 villaggi arabi, espellendo gran parte degli abitanti. L’obiettivo: possedere il massimo territorio e con il numero minimo di abitanti non ebrei.
Un attacco grave fu la distruzione del villaggio di Deir Yassin, vicino a Gerusalemme, massacrando più di 100 persone, tra cui donne incinte, anziani e bambini dei quasi 600 abitanti, un evento condannato fortemente in occidente, anche da ebrei come Einstein e Hanna Arent. Questo fatto, però, divulgato dai sionisti, creò costernazione tra tutti gli arabi che, di fronte alla notizia delle azioni vicine delle milizie ebraiche, fuggivano dalle loro case, aspettando di ritornarvi alla fine della guerra. A Gerusalemme ovest in quartieri come Qatamon, con maggioranza di benestanti palestinesi cristiani, a fine marzo avevano abbandonato tutti le loro case dopo che a gennaio fecero crollare un hotel con 11 morti. E similmente con altri quartieri di Gerusalemme ovest. Oppure nell’importante città di Haifa, abitata per metà da arabi ed ebrei, quando i sionisti occuparono una piccola parte, il suo sindaco, per evitare il rischio di un massacro, avvertì gli arabi di lasciare la città e aspettare ad Acri per tornare più tardi, consiglio seguito dall’80%. Una cosa simile successe nella seconda grande città, Jaffa. In compenso, in tutti questi attacchi, il bilancio delle vittime (una o due migliaia) accanto all’enorme numero di sfollati fu relativamente piccolo.
Il 14 maggio, come aveva previsto l’ONU, Ben Gurion proclamò la nascita dello Stato di Israele. Harry Truman, annunciò subito che il suo paese riconosceva il nuovo Stato, e due giorni dopo seguì il riconoscimento dell’Unione Sovietica. E nei giorni seguenti quello di altri Stati, senza considerare le ripercussioni sulla maggioranza della popolazione, ossia gli arabi di Palestina. Per essi questa data è ricordata come la Nakba, il disastro. In quel momento un terzo della popolazione palestinese era già stato cacciato.
Quando gli inglesi andarono via, iniziò la vera guerra. I governi di Egitto, Giordania, Siria, Libano e Iraq invasero il Paese con i loro eserciti, ai quali si aggiunsero dei volontari arabi. Egitto incorporò nelle loro file i fratelli musulmani che aveva in prigione e già il 15 maggio 10.000 uomini attraversarono il confine tra Sinaí e Neghev conquistando alcuni kibbutz trovati nella marcia, e aerei egiziani bombardarono Tel-Aviv. Il 19 maggio la Legione araba (della Transgiordania) conquistò dei territori a sud del Giordano e il quartiere ebraico di Gerusalemme. Questi governi decisero di combattere Israele in parte spinti dalla popolazione, ma anche con il segreto scopo di approfittare dell’invasione per espandere il proprio stato con eventuali terre conquistate. I loro combattenti non erano ben attrezzati né addestrati, ad eccezione della Transgiordania comandata da ufficiali britannici e dove il suo re, Abdalah, avrebbe concordato con Ben Gurion la repartizione del paese tra loro due. I palestinesi non glielo hanno perdonato assassinandolo nel 1951.
I palestinesi furono ignorati da tutti. La loro popolazione, per lo più rurale e scarsamente equipaggiata militarmente, non ricevette il minimo aiuto da nessun paese arabo. Il 18 maggio le forze ebraiche occuparono Acri per cui i palestinesi che si erano rifugiati lì da Haifa dovettero spostarsi di nuovo per rifugiarsi questa volta in Libano. Le forze sioniste ben preparate da tempo respinsero gli attacchi anche se con perdite umane. Dopo una settimana di combattimenti, gli arabi si dimostrarono incapaci di mantenere tante zone occupate. Il 24 maggio le forze siriane, irakene e libanese iniziarono una ritirata precipitosa.
Il 20 maggio le N.U. finalmente cominciarono a muoversi e nominarono il conte Folke Bernardotte con il compito di trovare una soluzione alternativa alla spartizione. Il Consiglio di sicurezza sollecitò un cessate il fuoco per una durata di 28 giorni, che ottenne risposta solo quindici giorni dopo. Nei giorni di cessate il fuoco ogni parte cercò di riarmarsi. I paesi arabi, però, disponevano di poche risorse economiche per l’acquisto di armamenti, oltre a difficoltà poste dagli inglesi per garantire la continuità del cessate il fuoco. I sionisti invece poterono comprare armamenti dai paesi del blocco comunista, finanziati da ebrei della diaspora.
Conclusa questa prima tregua, l’8 luglio ripresero i combattimenti, a cui i governi arabi, pur mal attrezzati, non poterono sottrarsi per non essere considerati sconfitti davanti alla crescente opposizione della popolazione araba.
Gli israeliani continuarono la loro azione di “pulire” di arabi più villaggi e città di popolazione mista, ormai in tutta la Palestina. A luglio occupano Ramleh e Lydda dove la popolazione è scacciata, Lydda viene rasa al suolo e ricostruita col nome di Lod (nel cui comune si costruirà l’aeroporto). In un centinaio di villaggi tra Tel-Aviv e Haifa si ripeté la stessa scena: soldati israeliani circondavano il villaggio da tre lati e costringevano gli abitanti a fuggire dal quarto lato. Se si rifiutavano erano caricati in camion e espulsi oltre il confine. A Tantura, invece, 200 uomini tra 13 e 30 anni furono massacrati e il resto dei 1500 abitanti espulsi. A ottobre occupano il deserto del Neghev. In Galilea risparmiano gli abitanti di Nazareth e Shafamru ma espulsero tutti gli altri col sistema di terrorizzarli. In questa regione, però, si trovarono con una forte difesa dei palestinesi che si erano istruiti meglio nella lotta, e aiutati da volontari del Libano, cosa che fece reagire gli israeliani con crudeltà.
Nel settembre del 1948 il conte Bernardotte che si era ripetutamente espresso per il rientro dei profughi palestinesi fu assassinato da estremisti ebrei, cosa che comportò un distacco delle N.U. riguardo a Israele, fino allora apertamente filosionista. Tra gennaio ed aprile del ’49 si firmano gli accordi di Rodi tra lo Stato di Israele e la maggioranza degli Stati Arabi. In quel momento rimaneva in potere degli arabi soltanto la Cisgiordania e Gerusalemme est in mano della Transgiordania che in questo modo saranno annesse, e che d’allora cambiò il nome con quello di Giordania. Dato il suo carattere provvisorio, la linea di demarcazione con Israele è riconosciuta come “linea verde“. Egitto, che aveva in mano la zona sudovest della Palestina attorno a Gaza, da allora, rimarrà controllandola.
Dei circa 850.000 palestinesi residenti nel territorio assegnato dalle N.U. allo Stato ebraico, soltanto 155.000 rimasero dov’erano, e ricevettero la cittadinanza ma sotto regime militare fino al 1966. La comunità ebraica, con 660.000 persone ebbe 6.000 caduti di cui 2.000 civili.
I rifugiati dopo la guerra del 48
Quasi 750.000 palestinesi fuggirono o furono espulsi nel 1947 e ’48. Quei pochi che avevano delle sufficienti risorse riuscirono a stabilirsi in vari paesi per conto loro. Ma la maggior parte rimasero ammassati in campi di rifugiati oltre le frontiere del nuovo Stato di Israele, ricevendo degli aiuti per la loro sopravvivenza da enti privati solidali internazionali, soprattutto americani, per qualche mese. L’11 Dicembre 1948, le N.U. adotta la risoluzione 194 che prevede il diritto al rientro dei profughi palestinesi: «I rifugiati desiderosi di ritornare alle loro case,… debbono riceverne il permesso quanto prima» e aggiunge che «gli si deve dare una compensazione economica per la perdita o danni delle loro proprietà».
Nel gennaio del 1949, le N.U., dando peso a questa loro dichiarazione, crearono un istituto incaricato specificamente dei rifugiati palestinesi: la “United Nations Relief and Works Ageny” (UNRWA), il quale, in attesa del loro imminente rimpatrio, si limitò a trasferirli dalle tende a delle casette per lo più di creta in accampamenti recintati da muretti e con dei viottoli angusti.
L’Agenzia riconosce come rifugiati anche i discendenti di questi. Perciò, sebbene quando iniziò a operare rispondeva ai bisogni di circa 750.000 rifugiati palestinesi, oggi, circa 5,9 milioni hanno diritto ai servizi dell’UNRWA.
In una conferenza di pace per studiare l’applicazione delle proposte di Bernardotte, svoltasi a Losanna nell’aprile del 1949, in seguito alle pressioni degli USA, Israele acconsentì, l’11 maggio, a dialogare su dette proposte in vista alla sua accettazione. In questo modo Israele fu accettato come parte delle Nazioni Unite, ma il giorno dopo prese una posizione inflessibile nei confronti delle soluzioni discusse, rifiutando la riammissione dei rifugiati.
Oggi un terzo, più di 1,5 milioni di persone, vivono in 58 campi profughi palestinesi riconosciuti dalla UNRWA in Giordania, Libano, Repubblica araba siriana, Striscia di Gaza e Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est. Paesi con difficile situazione interna per cui considerano che non possono dargli la cittadinanza. Le situazioni sono varie secondo il paese e il momento. Per esempio la Siria, che offriva i servizi medici statali ai profughi palestinesi, oggi non può farlo con la guerra in atto.
Gli altri due terzi dei rifugiati palestinesi registrati vivono dentro e intorno alle città e ai paesi di Cisgiordania, della Striscia di Gaza e di paesi ospitanti, sempre nei dintorni dei campi ufficiali. La UNRWA dispone di scuole e centri sanitari nei campi di rifugiati.
Gaza, che prima del 1948 aveva 16.500 abitanti, dopo il 1948 ne aveva 260.000, incremento dovuto ai rifugiati. Oggi, con le tre nuove generazioni, sono 2.000.000, la maggioranza sotto le cure della UNRWA. Essa nel suo bollettino del 21 maggio ha informato tra l’altro che ha dovuto sospendere la distribuzione di cibo nella città di Gaza e altri punti della striscia, dato che da due settimane non entra niente nella striscia, e per l’insicurezza. Inoltre, soltanto 7 dei 24 centri sanitari sono operativi e mancano medicinali, combustibile e cibo. Dall’inizio della guerra ha dovuto lamentare la morte di 189 dei suoi impiegati.
In questa situazione Israele ha accusato nove impiegati della UNRWA di aver collaborato con Hamás nell’attacco a Israele lo scorso 7 ottobre, ma non ha potuto fornire dettagli di chi fossero. Nonostante che questa accusa sia quindi senza fondamento, alcuni paesi hanno deciso di interrompere l’aiuto economico all’Agenzia, tra cui anche Italia. La UNRWA ha già informato recentemente che, se questi paesi mantengono il loro rifiuto all’aiuto a cui si erano impegnati, si troverà già a giugno senza fondi per i bisogni alimentari dei 58 campi profughi che gestisce.
Una decisione, questa dell’Italia, come minimo sorprendente e che ci auguriamo sia sospesa con rinnovo del suo intervento a sostegno di questi profughi sofferenti da tanti anni.
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