I regimi africani sfruttano i drammi dei migranti
Abbiamo appuntamento per le 16. Mi devo recare al Collegio etiopico: «Entra dal Sant’Uffizio, passa per l’ufficio permessi, poi vai sempre dritto», mi dice al telefono don Mussie Zerai, responsabile dell’agenzia Habeshia preparandosi a quasi un’ora di intervista in cui non tacerà nulla: racconterà la vera realtà che c’è dietro l’immigrazione, dietro gli sbarchi di così tante persone sulle coste italiane. Il collegio è costruito su una collina circondata dal verde dentro la Città del Vaticano. L’edificio è deserto. Busso. Mi si presenta don Zerai, mi sorride e mi fa accomodare alla mensa. Una suora sta apparecchiando. Si sente solo il rumore di piatti, coltelli e forchette che rimbombano nel vuoto. Mi offre un tè freddo con un pezzo di torta. È un preludio gioviale prima del dramma che le sue risposte raccontano senza sconti.
Come potrebbe presentare l’agenzia Habeshia di cui lei è responsabile? Quali sono le azioni concrete che fa? E quali le sue funzioni nell’aiuto dei rifugiati?
«L’agenzia Habeshia è nata nel 2006 dopo che, a partire dal 2003, abbiamo visto arrivare in Italia sui barconi migliaia di persone, le quali, appena sbarcate, si trovavano in mezzo alla strada per mancanza di organizzazione e coordinamento, per assenza totale di un sistema di accoglienza nazionale. Molti hanno cominciato a chiederci una traduzione, un’informazione, qualcuno che facesse da collegamento fra loro e le istituzioni. Da lì è nata l’idea di fare qualcosa. Con alcuni amici italiani bussavamo già singolarmente alla porta delle istituzioni, ma non ci davano ascolto: era necessario andarci a nome di qualche associazione. A quel punto è sorto il problema del tipo di associazione da fondare. Abbiamo pensato a un’associazione che facesse anche cooperazione per lo sviluppo, perché la nostra idea è che, prima di tutto, bisogna creare condizioni di vita migliori nel Paese da cui queste persone fuggono. Poi, laddove questo non fosse possibile, fare qualcosa nei Paesi di transito. La nostra attività è quindi duplice: da una parte fare sensibilizzazione verso le istituzioni e l’opinione pubblica – cercando allo stesso tempo di difendere gli immigrati con la denuncia delle violenze che subiscono lungo il viaggio – e dall’altra cercare di finanziare progetti che possano essere utili alla vita di queste persone anche nei Paesi di transito».
Lei ha parlato della situazione dei Paesi da cui queste persone scappano e noi in Italia di queste realtà sappiamo veramente poco. Qual è la situazione in Eritrea? Da cosa si scappa veramente?
«L’Eritrea è dal 1991 (anno dell’indipendenza ndr) ad oggi un Paese che non ha mai celebrato elezioni. Nel 1997 c’è stato un referendum per far entrare in vigore la Costituzione, ma il presidente – se così si può chiamare dal momento che nessuno lo ha eletto – non l’ha mai firmata. Non essendo entrata in vigore la Costituzione l’Eritrea non può essere considerata uno Stato di diritto, perché non c’è una legge o un ordinamento alla base per cui si possa dire: “Mi appello alla Costituzione perché questi sono i miei diritti”. In più non esiste un tribunale indipendente, non c’è libertà di stampa, di movimento, di coscienza. Non c’è neanche libertà religiosa: gruppi religiosi minoritari come i pentecostali, i testimoni di Geova, alcune minoranze islamiche sono perseguitati. La stessa Chiesa ortodossa – la cui fede è abbracciata dalla maggioranza del Paese – è nelle mani del regime. Il patriarca della Chiesa ortodossa, eletto con regolare procedura canonica, è agli arresti domiciliari, sostituito da un patriarca più affine al regime. Poi c’è il servizio militare, che è diventato di fatto una schiavitù legalizzata. Le persone sanno quando inizia ma non quando finisce: c’è chi ha fatto 15 anni di servizio, chi 20. Stando alle dichiarazioni del regime ogni maschio sotto i 50 anni e ogni donna sotto i 40 sono tenuti a svolgere questo servizio. E questo vuol dire che si è costretti a farlo fino a 50 o 40 anni. L’Eritrea è questa: un Paese militarizzato, un Paese di soldati. È ovvio che i giovani non vogliano finire la loro vita facendo i militari a due soldi. Questo, aggiunto all’assenza totale di ogni diritto e libertà d’opinione e d’associazione, fa vivere gli eritrei in una realtà in cui lo Stato decide come devi vivere, che tipo di vita devi condurre».
Poniamo che una persona voglia fuggire. Qual è il percorso che lo porta sulle coste libiche da cui poi parte per l’Italia?
«Bisogna essere consapevoli di un’altra cosa importante: il regime eritreo usa l’emigrazione come valvola di sfogo. Non vuole che in Eritrea scoppino le rivoluzioni che ci sono state in Africa del Nord: i giovani che potrebbero creare problemi all’interno li spinge via. È lui stesso che li aiuta a lasciare il Paese. In che modo? Basta che paghino. Ci sono pezzi dello Stato che sono dediti a questo traffico di esseri umani. Si pagano 10 mila, 20 mila, adesso addirittura 100 mila monete locali (nakfa). Ti accompagnano con l’autista e la macchina di Stato fino al confine con il Sudan. Poi se sei fortunato ti lasciano libero e continui il tuo viaggio, se non sei fortunato loro stessi ti vendono ai trafficanti, che ti sequestrano, ti chiedono altri soldi e se non paghi ti vendono a loro volta. È quello che attualmente sta accadendo nel Sinai e che noi abbiamo denunciato più volte dal 2010 in poi».
Dal Sudan come avviene la traversata che li conduce al Mediterraneo?
«Dal Sudan ci sono altri trafficanti. È tutto concatenato e ogni passaggio esige un pagamento. Una cosa che magari non si sa è che la catena continua fino al Nord Europa: per quelli che sbarcano in Italia e vogliono raggiungere altri Paesi europei ci sono altri passeur legati a quelli che si trovano in Sudan e in Libia. Gli immigrati che arrivano sanno già a chi rivolgersi».
Arrivano poi in Italia e vengono messi in questi centri di accoglienza, o meglio, di detenzione. Cosa succede in questi luoghi?
«Si dice che i centri di detenzione o i cosiddetti Cara (centri di accoglienza per richiedenti asilo) costino troppo per chi ne ha la gestione sul piano economico, ma sul piano fisico e psicologico costano veramente caro ai profughi. Il grosso problema è che sono tutti sovraffollati. Io per esempio sono tornato giovedì scorso da Lampedusa dove ci sono ancora i sopravvissuti all’ultima tragedia. In quel centro, chiamiamolo di accoglienza, sono costretti a vivere in condizioni assolutamente disumane. Le condizioni di vita sono da lager: questi uomini sono costretti a dormire per terra su un materasso sudicio, sotto la pioggia e sotto il sole. È veramente inaudito ciò che ho visto. Il centro è adeguato a ricevere non più di 200 persone, ma là dentro erano in 700. Ma si possono prendere come esempio anche altri centri, come quello di Mineo o di Caltanisetta: la situazione è identica».
A cosa servono allora questi centri?
«Una volta trasferiti da Lampedusa a questi altri centri, dovrebbero essere esaminate dalla Commissione territoriale le loro richieste, in modo da valutare se le singole persone sono idonee a ricevere lo status di rifugiato o meno. Però i tempi di attesa si sono allungati. Al Mineo, di recente, c’è stata una manifestazione perché ci sono persone che aspettano lì anche da un anno. L’unica cosa buona che ha fatto la legge Bossi-Fini è di avere introdotto sette commissioni territoriali per sveltire la verifica e l’esame di queste richieste. Eppure adesso stiamo tornando alla vecchia situazione quando c’era un’unica commissione territoriale per tutta l'Italia a Roma e i tempi di attesa si prolungavano per tre o quattro anni. La gente, dopo tutto quello che ha attraversato, non può vivere anche questa sofferenza, sono rinchiusi come i detenuti delle peggiori carceri. Fra l’altro bisogna ricordare che vengono già arrestati: l’Italia non è la prima a farlo. Succede spesso in Libia dove vengono tenuti in centri di detenzione spesso finanziati da fondi europei, dove vengono maltrattati e subiscono ogni tipo di abuso e di discriminazione per motivi anche religiosi».
Qual è invece la situazione in Libia?
«In Libia ci sono maltrattamenti e discriminazioni per motivi di lavoro e di religione. Dopo il cambiamento politico avvenuto in seguito alla caduta del regime, infatti, i neri sono sempre considerati pro Gheddafi e quindi non gli si dà lavoro. Nel 2011 sono stati uccisi più di 800 africani a Misurata solo con l’accusa di essere neri e quindi di essere a favore del regime. Da allora non è cambiato molto. È normale che queste persone debbano fuggire di nuovo, anche dalla Libia. E allora l’unica via che hanno è quella di attraversare il mare. Anche quel viaggio è organizzato dai trafficanti, in complicità coi militari, la marina e la guardia costiera libiche. Ci sono complicità per mezzo delle quali i trafficanti riescono a far partire anche 500 persone in un viaggio solo, mettendo in pericolo la vita di tutti».