I ragazzi del Raval

Cominciavano ad essere notati quei giovani che, da altre zone della città, si davano appuntamento proprio lì, nella Calle de la Luna. Che non fossero uno dei soliti gruppi di turisti intenti a badar, cioè a gironzolare per i vicoli della ciutat vella, lo capirono subito. Ma cosa ci stessero a fare puntualmente ogni sabato, in piena siesta, anche nei mesi più caldi dell’anno, lo avrebbero capito più tardi. I giovani erano soliti far capannello in un angolo ben in vista della Calle. In un primo momento, non dettero importanza alla cosa: in fondo, non era la prima volta che qualcuno cercava di offrire pasticche o roba, cioè droga. Ma quando, una settimana dopo l’altra, videro che quei giovani erano ancora lì, senza chiedere, né dare nulla, iniziarono a prestar loro attenzione, più per curiosità che per altro. Si erano anche presentati, spiegando chi fossero e cosa facessero. Qualcuno era studente, alle superiori o all’università; qualcuno invece già lavorava. Vollero a loro volta conoscerli per nome: una bella sorpresa, loro che di solito venivano etichettati sommariamente come chinos, cioè cinesi, anche se non avevano gli occhi a mandorla. Erano loro, i nuovi ragazzi del quartiere Raval: nordafricani, turchi e sudamericani, che però non legavano tra loro. Trascorrevano tante ore del giorno in strada, in quell’antico quartiere diventato ormai multietnico, di cui anche la capitale della Catalogna si va popolando. Quartieri difficili, dove chi vi abita si sente emarginato rispetto al resto della città. Quei giovani inquilini della strada erano esposti a pericoli e a violenze di ogni genere: il barrio chino – cioè cinese, come ormai chiamavano il Raval – non era certo un quartiere sicuro, tanto meno per loro. Fino a pochi anni fa era impensabile avventurarsi nei suoi vicoli. Oggi invece si vede un notevole sforzo da parte di associazioni religiose e non, associazioni, enti pubblici e privati, che giorno dopo giorno lavorano al recupero ambientale ed umano del territorio. Tra questi, il gruppo di giovani catalani legati ai Focolari, una quindicina in tutto tra ragazzi e ragazze. Non disponevano di grandi mezzi, è vero, né avevano esperienza su come interagire con quei bambini e ragazzi che portavano in sé il trauma di sentirsi strani e diversi, solo perché parlavano un’ altra lingua e praticavano costumi differenti. Avevano però dalla loro parte tanta buona volontà, fantasia e, fatto non trascurabile, erano loro molto vicini per età. Ma come vincere la loro diffidenza? Cominciarono col sostare, bighellonare anche loro sulla strada. Iniziarono con piccoli gesti. Un saluto, un sorriso, un apprezzamento. Finalmente un sabato mattina, un ragazzo dal volto bruno e vispo propose di giocare insieme una partita di pallone. Il ghiaccio era rotto. Fiorirono così, in quel pezzo di strada, occasioni ormai attese da ambo le parti di incontrarsi, di stare un po’ insieme. Rispolverarono svaghi ormai archiviati nei ricordi d’infanzia – per fortuna, chissà come mai, i ragazzi di tutte le latitudini si divertono allo stesso modo – per giocare con i nuovi amici, che aumentavano di numero. Col passare del tempo, si resero conto che occorreva dare un punto di riferimento più stabile alla loro attività che si svolgeva in strada. “Non avevamo certo i mezzi – spiega Ana Maria, una del gruppo – ma provvidenzialmente abbiamo trovato un locale per i nostri incontri proprio nella Calle de la Luna. Il contatto poi col parroco padre Deulofeu ci ha aperto la porta della parrocchia di Sant’Agostino, che si trova proprio al centro del quartiere. Potevamo così articolare meglio le nostre attività, i nostri laboratori di pittura, di canto e di chitarra”. Chiamarono “Il mosaico” questa attività settimanale. Con ciò volevano esprimere la realtà del loro stare insieme, di giovani e ragazzi provenienti da paesi e culture diverse, ma che ciascuno era considerato importante, un elemento insostituibile per dar vita all’insieme. A chi chiede loro il segreto per cui sono riusciti a creare con pochi elementi uno spazio educativo di così grande efficacia, rispondono candidamente di non aver altro da proporre che “l’ideale del mondo unito nel cuore, e un’arte di amare come metodologia pedagogica”. “Il nostro obiettivo immediato è uno solo: metterci al servizio di questi ragazzi – dice Santi -. Accompagnarli a casa, chiedere il permesso ai loro genitori per qualche attività, è tutto un pretesto. Occorre di volta in volta conquistarsi la loro fiducia, e non sempre è facile”. Certo è che quando hanno iniziato era difficile immaginare, e quindi proporsi un obiettivo, una meta di carattere educativo. “Abbiamo fatto esperienza sul campo, del resto non ci sentivamo all’altezza. Tutto ci è nato tra le mani, e solo dopo – prosegue – ci siamo resi conto che quel clima di rispetto, di stima reciproca, in ci sforzavamo di farli vivere incideva al di là di ogni aspettativa”. Pur tra gli inevitabili incidenti di percorso, cambiava il modo di rapportarsi tra loro: si mostravano meno aggressivi. “Era difficile all’inizio – dice Pilar – far loro capire, perché non lo avevano fino ad allora sperimentato, che il nostro rapporto era basato su valori non materiali, come l’amicizia, lo stare insieme, il rispetto reciproco, a condividere, più che a pretendere, le poche cose che avevamo. È stato un bel traguardo quel giorno in cui, vedendo che erano finiti i colori per dipingere, due ragazze si offrirono di andare ad acquistarli a loro spese”. Ed è così che, se il sabato mattina capitasse a qualcuno dei lettori di andare a badar nella Calle della Luna del Raval, troverebbe un frammento di umanità rinnovata, che sta provando ogni giorno a crescere un po’ di più. Caterina Ruggiu e Ciudad Nueva

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