I ragazzi con le bandiere
Entrando nel vasto androne dell’Arena di Budapest, il cronista non può che costatare l’insolita infiorescenza che ondeggia sulla folla, costituita di bandiere di decine e decine di Paesi. Nessuno inalbera il vessillo del Genfest, tantomeno la stella gialla su fondo azzurro che è l’emblema dei Focolari. Mi si avvicina un ragazzo che sventola una bandiera del Libano che pare un lenzuolo. Viene da Annecy, in Francia. Gli chiedo ragione di quel vessillo: «Quest’estate sono stato nella Terra dei cedri e mi sono reso conto che, se non interveniamo noi europei, quel simbolo di convivenza rischia di essere spazzato via dalla furia dei fondamentalismi. Così sono diventato libanese, nel cuore». Statene certi, non è detto che colui che sventola una bandiera brasiliana sia carioca, o colui che fa roteare la bandiera del Kenya sia keniota. Effetto della globalizzazione? Sì, ma di quella buona, che fa amare la patria altrui come la propria.
C’è molto di più dietro lo sventolio di queste bandiere, come c’è molto di più dietro quello che i giovani dicono dal palco al Genfest. La brevità imposta dalle esigenze sceniche condanna a proporre qualcosa di riassuntivo che non rende conto della vastità dell’impegno dei Giovani per un mondo unito. Ad esempio, i giovani di Yogyakarta, in Indonesia, in collegamento raccontano piccole vicende della preparazione dell’appuntamento ungherese, ma non possono accennare, ad esempio, all’ampia azione che hanno fatto a Bantul, epicentro del terremoto devastante del 2006: hanno costruito dei centri sociali con i musulmani dei 42 villaggi rurali, e ora sono impegnati in un vasto programma di insegnamento dell’inglese ai bambini. Altro esempio, i giovani egiziani raccontano di un muro dipinto assieme alla popolazione per rendere più gradevole la vita d’un quartiere, ma non possono raccontare della loro partecipazione alle manifestazioni di piazza Tahrir, del loro impegno nei social network, del loro “essere rivoluzionari”.
E potrei continuare. La giovane coppia tedesca che racconta del tentativo di vivere in famiglia seguendo il Vangelo, nella verità e nella carità – scelte controcorrente –, è solo una delle mille e mille coppie che fanno altrettanto, come sono tanti coloro che compiono atti simili a quelli del giovane brasiliano che per strada si ferma, novello samaritano, per soccorrere un giovane epilettico, o simili al giovane egiziano malato di sclerosi multipla che accetta la grave malattia propria e altrui…
C’è di più, indiscutibilmente, c’è molto di più di un semplice spettacolo, pur di qualità assolutamente notevole, che non fa che raccogliere il vissuto di migliaia di ragazzi e ragazze del mondo intero. C’è molto di più dietro l’applauso fragoroso per le acrobazie di giovani in bianco sospesi a lunghe strisce di stoffa scarlatte, crocifissioni aeree… La realtà può essere più dura della fiction, ma anche al contrario può essere più ricca.
È forse Maria Emmaus Voce, presidente dei Focolari, accolta nello SportArena da una rumorosa standing ovation e da una insistente hola, che sintetizza meglio le difficili situazioni dell’attuale situazione giovanile: «Viaggiando per il mondo ho conosciuto i giovani di ieri e di oggi; ho visto trasformarsi le condizioni sociali in cui si vive; ho visto il frantumarsi di tante sicurezze; ho visto le sofferenze di non trovare lavoro… Ho sentito crescere una generazione che ha paura. Paura di illudersi e di essere delusa, paura di dare qualcosa di sé e di trovarsi a mani vuote».
È su questa base che qualcosa può e deve essere fatto: «Ho però incontrato anche molti giovani – spiega ancora Maria Voce – che sanno che per la costruzione di un mondo più unito occorrono cambiamenti innanzitutto personali, e quindi scelte radicali. E le fanno. Scoprendosi fratelli, vicini e solidali… Sì, dico a voi tutti: guardate in alto. Guardate lontano, è lì che troverete l’appiglio sicuro. Guardate all’amore che è Dio. Lui è l’unico che non vi delude… E poi non abbiate paura! Siate voi stessi ed entrate personalmente nella società… Il vostro contributo è unico, irripetibile».
Ed ecco il realismo che le è notoriamente consono: «Occorre per questo passare subito all’azione… Il Genfest, pur nella sua bellezza e nella sua grandezza, rimane poca cosa di fronte alle necessità dell’umanità. Cosa sono 12 mila giovani di fronte ai circa due miliardi di giovani del mondo? Eppure se cambia il cuore dei presenti, allora il mondo comincia a cambiare. E il cuore cambia se si lascia penetrare dall’unico valore che tutti i giovani di ogni latitudine riconoscono come il più importante: l’amore! Cominciate quindi ad amare concretamente». Il primo passo non è quello delle azioni grandi, ma quello dei piccoli atti d'amore «che fanno grande la vita e hanno il potere di cambiare il mondo e di incidere sulla società… Così può partire da questo SportArena un unico fiume d’amore… Chiara Lubich ci ha ripetuto che “occorre nel mondo un supplemento d’anima, un supplemento di amore”. E questo dobbiamo portare».
Un supplemento d’anima che nelle intenzioni dei Giovani per un mondo unito non vuol restare una formula solo spirituale. Così lanciano l’United World Project: questo il nome dell’iniziativa lanciata al Genfest per far sì che l’assise ungherese non resti un bellissimo esempio. Nel deserto. Vuol dire stringere un “patto mondiale per la fraternità” e creare di conseguenza un “network della fraternità”, che impegni personalmente chi vi aderisce, sostenuto da un “osservatorio permanente per la fraternità”.
Più volte, nel corso del Genfest, si creano degli spontanei girotondi in sala, che invariabilmente finiscono col “riempirsi” e diventare una massa, direi una “massa critica”, cioè quel livello numerico raggiunto il quale non si torna più indietro. Ecco, vedere 12 mila giovani d’oggi che firmano un tale impegno di vita dice che l’United World Project è sano realismo, perché ricco d’ideali.