I “Pensieri” di Pascal

Ricordando che i cosiddetti Pensieri di Pascal, la grande opera apologetica rimasta frammentaria alla morte del suo autore (1662), sono uno dei grandi intramontabili libri dell’umanità (con come, ad esempio, le Confessioni di sant’Agostino), tanto che li si trova sempre in libreria in molte diverse edizioni, non si può non essere felici di quest’ultima che, traducendo in italiano il grande lavoro filologicostrutturale di alcuni studiosi francesi culminato nell’edizione a cura di Ph. Sellier (2003), offre la più plausibile sistemazione dei “pensieri”, appunto, dopo le tante proposte in passato e tutt’oggi circolanti. La più plausibile, ma bisogna aggiungere: finora. Perché il “romanzo filologico” dell’opera non è verosimilmente del tutto concluso, ed è importantissimo continuare, se e quando occorrerà, dipanarlo, dal momento che tanto incide – tracciandolo! – sul percorso filosofico-religioso del pensiero pascaliano. Dalle diverse sistemazioni dei frammentari “pensieri”, infatti, derivano le diversità di percorso, che loro volta modellano diversamente le intenzioni, le scansioni, le strutture di un insieme che voleva essere non certo un accumulo di considerazioni, ma una guida alla progressiva retta conoscenza della religione di Cristo nel secolo del superficiale e sommario, ancorché razionalistico, pensiero libertino. Quest’ultima “forma” dei Pensieri ha molte ragioni per catturare l’interesse dei lettore, e le mette bene in luce B. Papasogli nella sua accurata ed equilibrata introduzione: che è particolarmente encomiabile perché, mentre spiega con la necessaria precisione come e quanto pesino le diverse collocazioni non solo dei singoli frammenti ma anche delle parti o sezioni denominate da Pascal, contemporaneamente e in contrappunto dimostra come, a questa ricerca della verità storica, filosofica e letteraria del discorso pascalinno, se ne intrecci un’altra ugualmente, simultaneamente e coestesamente decisiva: che quei pensieri-frammenti, non per caso lasciati nel loro stato dall’autore, evidenziano, comunque li si voglia allocare e dislocare, la natura intimamente moderna, del loro essere; non sono infatti (attenzione!) forme con- centrate gnomico-sapienziali secondo la classica regola aurea della brevitas, e tantomeno condensazioni epigrammatiche o aforistiche, ma, invece, frammenti e quasi frantumi che possono solo essi, in quanto tali, riflettere adeguatamente, “nel chiaroscuro del non-finito”, la paradossale grandezza-miseria dell’uomo “portando il segno e la nostalgia della totalità assente”. “Dimensione del profondo” e dell’incompiuto che fa la sua comparsa proprio allora, dice giustamente la Papasogli, nei moralisti classici, tra la Rochefoucauld, Pascal e La Bruyère; ma immensamente in Pascal, che vi fa fronte con la sua ragione non razionalistica (non cartesiana) ma paradossale, socratica direi, e dialettica fino alla sfida. La “combinazione in movimento” delle parti nuovamente ricomposte offre una strutturazione nuova che finalmente mi riconcilia (e non solo me, credo) con il Pascal più apparentemente razionalistico (quello della “scommessa” su Dio), collocandolo all’interno di un percorso che, a partire dalla Lettera per portare a cercare Dio, presenta al lettore scettico, ma solo per ironia, la “scommessa” (pari); invitandolo subito dopo alla ricerca seria, decisiva, della fede: che passa attraverso la conoscenza dell’uomo (“mostro incomprensibile”) e quella di Dio; la quale non è data da formule, ma anzitutto dal prendere coscienza storica del grande “mistero d’Israele” (un quarto dell’intero testo!). Ricapitolando: grandezza e miseria dell’uomo; fascino dell’ideale evangelico come scelta esistenziale; enigna storico di Israele correlato alla profezia ebraica del cristianesimo. Quando poi si legge, nell’iniziale Lettera, “Sappiano almeno quale religione combattono, prima di combatterla.(…) Ne va di noi stessi, e del nostro tutto”, fa impressione: sembra, scritto espressamente per il 2003, e insieme riecheggia l’antico ammonimento di Tertulliano (II secolo): “(“affinché (questa religione) non sia condannata mentre la si ignora”.

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