I passi da compiere per raggiungere la pace
La pace è sempre stata a cuore ai pontefici, in particolare nell’ultimo secolo. Pio XII e Giovanni XXIII, testimoni della Seconda guerra mondiale e della Guerra fredda e di molte guerre o quasi guerre – quella di Corea, del Vietnam, la crisi di Cuba -, si erano, sia pure spesso inascoltati, pronunciati chiaramente come promotori di pace.
La Pacem in Terris aveva segnato una svolta nel ruolo che i leaders religiosi possono avere nelle tensioni e nelle crisi internazionali per scongiurare il pericolo di conflitti. Anche il grido di Paolo VI all'Onu – Jamais plus la Guerre – aveva avuto grande risonanza. Con Giovanni Paolo II, poi, la scena mondiale è cambiata radicalmente. Il crollo del muro di Berlino ha segnato la fine della guerra fredda, mai combattuta, ma che più volte aveva tenuto il mondo con il fiato sospeso. A seguire, oltre a quelli dei Balcani, sono iniziati altri conflitti; particolarmente gravi anche per le conseguenze che ci colpiscono oggi e che continueranno a farsi sentire a lungo, quelli sconsiderati ingaggiati in nome della democrazia, della libertà e dei diritti umani, che hanno colpito Pakistan, Afghanistan, Iraq ed altri punti del globo.
Giovanni Paolo II per la causa della pace è stato protagonista anche di viaggi e di gesti simbolici molto significativi ed inediti. Il papa polacco riuscì, infatti, a coinvolgere con un invito a sorpresa rivolto ai leaders delle fedi di tutto il mondo, anche di quelle originarie e tradizionali, a unirsi per una preghiera di pace. Questa fu Assisi 1986, un’esperienza tutt’altro che facile, contrastata da molti, anche all’interno della Chiesa cattolica. Ma Giovanni Paolo II ci aveva visto giusto ,come tutti i profeti che sanno leggere i segni dei tempi, ben prima degli accadimenti.
Recentemente, a fronte di una lettura della storia che presenta le religioni come causa di guerra, e di una battente propaganda mediatica che tende a dipingere le attuali tensioni caotiche del mondo come una scontro di culture e religioni, papa Francesco ha fatto della costruzione della pace uno dei perni fondanti del suo pontificato dimostrando con le parole e, soprattutto, con i gesti, che le religioni sono, invece, un elemento nodale per la soluzione o la prevenzione dei conflitti. Decisivo resta il ruolo dei leaders, ovviamente, anche se per Bergoglio la pace resta una scelta di vita quotidiana e non solo una questione che si gioca fra i cosiddetti ‘grandi’ a livello di vertici. In tal senso il suo discorso di ad Assisi, in occasione della celebrazione dei trent’anni della giornata di preghiera organizzata da Giovanni Paolo II nel 1986, può essere preso come un vero programma e una chiave metodologica per la pace.
Il grande deterrente odierno per un vero impegno di pace è quello che Bergoglio definisce senza mezzi termini ‘paganesimo dell’indifferenza’, la vera malattia di una globalizzazione che omogeneizza il mondo attuale e chiunque ci vive. L’indifferenza, infatti, – ha dichiarato il papa – è “la grande malattia del nostro tempo (…). È un virus che paralizza, rende inerti e insensibili, un morbo che intacca il centro stesso della religiosità, ingenerando un nuovo tristissimo paganesimo”. Qui il rischio che tutti corriamo e Francesco ha lanciato un monito che deriva dalla sua esperienza diretta di contatto con le vittime della guerra, avuta con il Patriarca Bartolomeo, a Lesbo, nella giornata trascorsa fra i rifugiati provenienti da Siria, Turchia ed altri Paesi in conflitto. Contro l’indifferenza, quindi, il papa insiste a “dar voce insieme a quanti soffrono, a quanti sono senza voce e senza ascolto. Essi sanno bene, spesso meglio dei potenti, che non c’è nessun domani nella guerra e che la violenza delle armi distrugge la gioia della vita”.
Un secondo punto, che Bergoglio ha evidenziato è, ancora una volta, la preghiera. Tutte le tradizioni religiose sono, infatti, chiamate a pregare per la pace, proprio perché, ha chiarito, “la differenza non è motivo di conflitto, di polemica o di freddo distacco”. La preghiera proposta ancora una volta ad Assisi è stata un pregare “senza sincretismi e senza relativismi”. Il papa ha giustamente rilevato, a differenza di quando nella storia si è pregato gli uni contro gli altri, che lo si è fatto “gli uni accanto agli altri, gli uni per gli altri”. Altro elemento fondamentale del discorso del papa, è stato il chiarimento dell’incompatibilità fra religione e violenza. “Non ci stanchiamo di ripetere che mai il nome di Dio può giustificare la violenza. Solo la pace è santa. Solo la pace è santa, non la guerra!”
Le posizioni di Francesco non sono mai casuali e nemmeno, contrariamente a quanto vorrebbero alcuni suoi detrattori, sempliciste o buoniste. Per la pace, è convinto il papa, è necessario sapere lavorare con una strategia ed una metodologia positiva, precisa e sicura. Un primo elemento che chiama tutti in causa, leaders e persone di qualsiasi posizione sociale, è l’impegno a sapere perdonare, una decisione che nasce dalla conversione interiore e che, “in nome di Dio, rende possibile sanare le ferite del passato”. Ma pace significa anche saper accogliere l’altro, il diverso, chiunque sia. Qui emerge con chiarezza la necessità della disponibilità al dialogo e alla collaborazione, “scambio vivo e concreto con l’altro, che costituisce un dono e non un problema”. Infine, non si può ignorare che tutto questo impegno per la pace non si può improvvisare. È necessaria una adeguata educazione a quello che è ormai diventato un parametro di riferimento del messaggio universale di papa Francesco: una cultura dell’incontro, che richiede la purificazione della coscienza da ogni tentazione di violenza e di irrigidimento.
L’invito di papa Francesco è rivolto a tutti: leaders religiosi e uomini e donne sia di fede che di cultura senza un riferimento religioso. Siamo tutti chiamati ad essere ‘artigiani di pace’. Qui è immediato il legame con il ‘cantiere della pace’, come Giovanni Paolo II aveva definito l’evento del 1986. Un cantiere, aveva già specificato il papa polacco, “aperto a tutti, non solo agli specialisti, ai sapienti e agli strateghi. La pace è una responsabilità universale”. Proprio in questa frase del suo predecessore sta, forse la svolta fondamentale di Assisi 2016. Siamo tutti chiamati a essere artigiani di pace, come già più volte, Bergoglio ha affermato che il dialogo è un dovere di tutti. D’altra parte l’intuizione del 1986 era stata quella di coinvolgere le religioni nei processi di pace e questo non sarebbe stato possibile senza un adeguato coinvolgimento dei diversi leaders e delle loro tradizioni che pure, tutte, parlano di pace. Oggi questo non è più sufficiente e dalle autorità religiose l’impegno deve scendere a tutti gli uomini e le donne che sono potenziali artigiani di pace nel quotidiano. È, infatti, nel tessuto sociale dove ciascuno vive con la sua comunità – famiglia, gruppo sociale o religioso, etnico o culturale, civile o amministrativo – che si possono cominciare processi di dialogo e pace che rinnovino il territorio e che siano passi importanti, non solo per la soluzione dei conflitti, ma anche per la loro prevenzione.