I paradossi della felicità
Che la felicità sia l’obbiettivo cui tutti noi, in un modo nell’altro, tendiamo, sembra un dato davvero scontato. La dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America, già nel 1776, considerava la ricerca della felicità addirittura come un diritto inalienabile. Ad una riflessione più attenta, tuttavia, appare decisamente meno scontato modo o il mezzo attraverso cui possiamo raggiungere tale fine. Non solo non sappiamo bene cosa occorra fare per essere felici, non sappiamo neanche bene che cosa significhi essere felici. Una cosa però appare chiara, circa la felicità, e cioè che tanto più la si cerca, tanto meno la si ha. Come afferma già Adam Smith nella sua Teoria dei sentimenti morali, avere a cuore la nostra stessa felicità, implica la “virtù della prudenza”, e cioè, continua Smith, avere cuore la felicità degli altri. nostra imperfetta comprensione del fenomeno dipenderebbe da misurazioni non affidabili. Un po’ come accadde con Tycho Brahe in astronomia, solo le sue misure accurate consentirono a Keplero l’elaborazione di una teoria soddisfacente del moto dei pianeti intorno al sole. Ma al di là dei tecnicismi è chiaro in molti che fattore cruciale che determina un elevato livello di felicità è in un modo o nell’altro legato alla qualità dei rapporti interpersonali, certo molto più che non dalla quantità di beni consumati. Ed è proprio all’aspetto delle relazioni che fa riferimento un secondo paradosso emerso con forza dagli interventi dei relatori. Che ruolo hanno gli “altri” nella nostra vita, come le loro azioni influenzano le nostre scelte economiche? Secondo alcuni, a partire da Aristotele, Genovesi, fino a Martha Nussbaum e Amartya Sen, “un uomo felice è un uomo con amici”. La felicità è un prodotto sociale, non si può essere felici in isolamento dagli altri. Ma questo ci espone ad un duplice rischio, e qui emerge il paradosso; da una parte infatti gli altri possono farci felici, ma in quanto io non posso controllare le tue azioni e tanto meno posso obbligarti ad essermi amico, dalla relazione con gli altri può anche nascere dolore e insoddisfazione. Non solo, ma nella relazione con gli altri è sempre implicata una sorta di competizione che viene definita “posizionale”. Vale a dire che il nuovo fuoristrada turbo che abbiamo comprato pur vivendo in città e avendo problemi di parcheggio mi darà una certa “felicità”, che sarà tanto maggiore se nessuno dei miei amici o colleghi ne ha uno simile. Nel momento in cui invece lo stes- so fuoristrada o modelli anche più esotici inizieranno ad apparire nei garage dei miei amici, l’utilità “posizionale”, che io derivo dalla mia macchina verrà azzerata. È da qualche tempo che questi fenomeni si sono imposti all’attenzione degli economisti. Robert Frank (l’autore di un testo universitario di economia conosciuto da molti studenti!), nella sua relazione milanese ha proposto una distinzione dei beni di consumo tra quelli rivolti a beni che danno “assuefazione” e quelli che invece forniscono un flusso di soddisfazione costante. Siccome a causa della competizione posizionale ognuno di noi sarebbe portato a sprecare risorse nel consumo vistoso, Frank propone delle misure, come una tassa su certi consumi ostentativi, per ridurre la competizione posizionale e veicolare le risorse così risparmiate verso il consumo di beni i cui effetti possano ricadere sull’intera comunità. Al fondo del discorso, per molti versi, ancora frammentario, che economisti, filosofi, sociologi e psicologi stanno tentando di costruire intorno ad una nuova scienza della felicità, sta, come messo in evidenza da Stefano Zamagni, l'”impossibile matrimonio tra individualismo e felicità”. Fino a quando le semplificazioni della scienza sociale continueranno a mostrarci l’essere umano come un soggetto freddamente razionale, un individuo massimizzatore strumentale della propria utilità, per nulla influenzato dai sentimenti e dai moventi pro-sociali, l’immagine che gli scienziati sociali continueranno a produrre dell’uomo e della società non sarà che una caricatura della “persona” e di tutto ciò che per essa veramente di più conta. Il passo compiuto a Milano costituisce un tentativo di sbrogliare anche quest’ultimo paradosso. LA FELICITÀ E GLI ALTRI Intervista al prof. Luigino Bruni. Lei è uno dei promotori del convegno milanese, caratterizzato da una partecipazione vasta ed estremamente competente: come ci siete riusciti? “Il convegno si è potuto concretamente realizzare grazie a due condizioni favorevoli: la grande apertura disponibilità del Dipartimento di economia dell’Università di Milano-Bicocca (dove lavoro), che fin dall’inizio ha creduto nell’idea, e l’entusiasmo e la fiducia con la quale alcuni affermati economisti (tra cui Robert Sugden, Pier Luigi Porta, Benedetto Gui, Luigi Pasinetti o Stefano Zamagni) hanno accolto l’idea. La risposta della comunità scientifica è stata enorme (quasi cento relazioni presentate, e più di 200 iscritti), e la nostra “felicità” pure”. Quali sono state le motivazioni che l’hanno spinta a pensare e poi a realizzare un convegno su un tema così insolito (per gli economisti)? “Sono alcuni anni che mi interesso di felicità in economia. Fin dall’inizio mi è parso un tema sintesi di argomenti culturali e teorici che mi stanno particolarmente a cuore, come studioso e come animatore del progetto dell’Economia di Comunione.Attorno al tema della felicità in economia si concentrano infatti tematiche cruciali per lo scienziato sociale, dall’idea di razionalità al ruolo dei rapporti interpersonali (dei cosiddetti “beni relazionali”), all’idea di persona sottostante l’economia. Occuparsi del rapporto tra reddito e felicità significa quindi dover necessariamente fare i conti con alcune delle sfide fondamentali per l’oggi, che abbiamo voluto indicare sotto il nome dei “paradossi della felicità in economia”. Sono tanti questi paradossi; la stessa felicità per sua natura è una categoria paradossale, poiché mentre posso essere ricco anche da solo per essere felice ho bisogno di donarmi agli altri: la felicità nasce dall’amare e dall’essere amati. E questo paradosso si pone al cuore della vita in comune: per essere felice ho bisogno degli altri, ma così la mia felicità” dipende dagli altri. Ciò che è emerso anche dai lavori del convegno è che spesso i beni economici diventano dei sostituti della mancanza di reciprocità e della solitudine, che poi però ci lasciano sempre più insoddisfatti”. UN NUOVO SETTORE DI STUDI Intervista al prof. Robert Sugden dell’University of East Anglia. Prof. Sugden, quale significato assume, secondo lei, questa conferenza? “Per molti decenni la scienza economica si è limitata a studiare il comportamento umano con un approccio assai parsimonioso, ritenendo cioè che dall’osservazione dei comportamenti di scelta fosse possibile trarre qualche indicazione soltanto a proposito delle preferenze degli individui. Ora è però in atto uno spostamento di attenzione verso un obiettivo più ambizioso, quello di rendere la felicità oggetto di studio delle scienze economiche. Quando ci è venuta l’idea di questo convegno, avevamo in mente una conferenza per un gruppo ristretto di persone, una sorta di workshop in cui avviare una riflessione sui rapporti tra economia e felicità. L’annuncio della conferenza ha però avuto, con nostra grande sorpresa, una risonanza enorme, di gran lunga superiore alle aspettative. È stato come se gli studiosi interpellati avessero colto la potenzialità di questo evento e non volessero correre il rischio di mancare ad un appuntamento che avrebbe potuto rivelarsi importante. Nessuno, insomma, se l’è sentita di non salire su un treno che avrebbe potuto percorrere un lungo cammino e contribuire ad aprire un’area di ricerca con grandi potenzialità di crescita”. Tuttavia, la gran parte degli economisti ha oggi ben altre priorità di ricerca e si occupa di tematiche molto lontane da questa. Il tema della felicità è destinato a rimanere prerogativa di un piccolo gruppo, seppur scelto, di studiosi o potrebbe diventare un argomento centrale in economia? “Sono convinto che vi siano tutte le premesse perché la felicità diventi una nuova sottodisciplina dell’economia. Tutto è avvenuto in modo improvviso e inatteso, anche se era nell’aria. Chi opera in campo scientifico è, in fondo, costantemente alla ricerca di nuovi settori di indagine nei quali desidera avventurarsi per primo” ma nello stesso tempo non è facile capire se valga la pena intraprendere un determinato cammino di ricerca prima di sapere che la comunità scientifica conferirà valore a questo nuovo argomento. Un problema che sembra essersi risolto in questa occasione, poiché chi è stato presente a Milano ha avvertito il fascino di muoversi in un campo nuovo, utilizzando un nuovo tipo di dati, ma nel contempo la composizione dei partecipanti (dal profilo sia della quantità che della qualità) ha conferito legittimità e riconoscimento a queste esplorazioni”. FELICITÀ ED ECONOMIA DI COMUNIONE Una domanda al prof. Stefano Zamagni. Quale è secondo lei il significato di un convegno come questo per il progetto dell’Economia di Comunione? “Il nesso secondo me è duplice. Da una parte l’esistenza e i successi dell’Economia di Comunione avvalorano, con i fatti, il filone di studi sulla felicità; essa cioè mostra che la gente non è felice quando possiede i beni ma quando li può condividere nella reciprocità, quando dona. E questa dinamica “paradossale” è vissuta nella normale vita economica, non in nicchie o oasi felici perché protette dalla lotta di mercato. “D’altra parte le relazioni presentate in questi giorni danno dignità scientifica all’esperimento dell’EdC, perché, dati e teorie alla mano, fanno vedere che ciò che gli attori dell’EdC hanno intuito con la vita è scientificamente fondato. Per questo motivo credo che oggi il Movimento dell’Economia di Comunione debba camminare su questo doppio binario: da una parte vivere con sempre maggiore radicalità e consapevolezza il proprio specifico, e dall’altra gli studiosi che hanno a cuore lo sviluppo dell’EdC debbono continuare questo lavoro di dialogo con la comunità scientifica, per dare fondamento e serietà all’esperienza degli imprenditori”.