I numeri della disoccupazione come un rebus
I dati Istat sollevano diverse e contrapposte analisi. Il caso della Germania dove la crisi produce meno danni.
I dati Istat sollevano diverse e contrapposte analisi. Il caso della Germania dove la crisi produce meno danni.
Basta aver fatto almeno un’ora di lavoro nella settimana di riferimento dell’indagine per essere classificati come “occupati” secondo l’Istituto nazionale di statistica. I “disoccupati”, invece, ricevono questa definizione se hanno compiuto almeno un’azione di ricerca di lavoro nei 30 giorni precedenti l’intervista dei rilevatori dell’Istat, che sono in parte, anche loro, “occupati” ma con contratti precari. Bisogna aver chiare queste definizioni per cercare di capire cosa dicono i dati forniti a fine ottobre 2010: la disoccupazione italiana ha toccato quota 8,6 per cento. Il valore più alto dal 2004.
I numeri sono molto distanti da quelli della Banca d’Italia che nelle ultime dichiarazioni del governatore Draghi ha riportato percentuali più elevate. Oltre l’11 per cento. Il centro studi di via Nazionale, infatti, mette assieme non solo chi mostra di ricercare occupazione, ma anche i cosiddetti “scoraggiati” e quelli che sono in cassa integrazione, perché considera molo labili i confini tra disoccupazione, sottoccupazione e inattività. Il Bureau of labour statistics degli Stati Uniti, ad esempio, fornisce dati molto significativi sui lavoratori che, non per propria volontà, sono costretti a lavorare per poche ore la settimana.
Le percentuali offerte dall’Istat sono tuttavia positive secondo il ministro del Lavoro. Se, infatti, sostiene Sacconi, aumenta la percentuale dei disoccupati, cioè di chi cerca lavoro, in presenza di dati sugli occupati che non subiscono variazioni, vuol dire che una parte degli scoraggiati ha deciso di rimettersi alla ricerca di un’occupazione. Nient’altro che una conferma dell’analisi complessiva di Banca di Italia, rispondono invece i critici, che sottolineano l’incapacità di rispondere ad un’emergenza sociale che riguarda soprattutto i giovani (26,2 per cento di disoccupazione Istat nella fascia tra 15 e 29 anni, pur in calo dello 0,4 per cento da settembre 2010).
Una crisi occupazionale fotografata già dall’Istat a luglio 2010 quando, facendo un paragone con il livello massimo degli occupati raggiunti in Italia due anni prima, nel luglio 2008, registrava una diminuzione degli occupati pari a 881 mila unità. Effetti di una crisi che colpisce inevitabilmente quelle tipologie di rapporto diverse dal lavoro a tempo indeterminato e cioè l’occupazione flessibile che può esaurirsi con il semplice mancato rinnovo dell’incarico.
Rimane, invece, da quantificare ciò che sfugge alle statistiche e cioè il fenomeno del lavoro nero e irregolare purtroppo molto diffuso da noi, tre milioni di persone secondo certe previsioni, anche come seconda attività di coloro che sono già occupati e magari sono dei “working poor” cioè lavoratori in regola che non arrivano ad avere una paga sufficiente per le necessità familiari.
Nel quadro europeo emerge la situazione della Germania che ha già fornito i dati di novembre con la disoccupazione che non cresce e rimane ferma al 7,5 percento. Un Paese con un numero di occupati stabili e redditi dei dipendenti superiori a quelli italiani del 25 per cento ; il che segnala l’investimento sull’alta professionalità dei lavoratori esplicitamente dichiarata come chiave di volta nella risposta alla crisi economica. In questo senso si può comprendere l’accordo denominato Futuro nel lavoro del colosso Sit-Siemens di settembre, che ha definito vincoli molto rigidi in materia di licenziamento, ricorrendo, eventualmente, a formule come il contratto di solidarietà che non espelle dall’azienda nessun lavoratore.
In generale, come ha riconosciuto Beda Romano corrispondente da Berlino de Il Sole 24 ore, si tratta di una strategia condivisa di salvaguardia dell’industria nazionale di un Paese in grado di resistere in tempi difficili perché è rimasto, nonostante le delocalizzazioni, un importante produttore di beni industriali.