I numeri al potere
Quale rischi nel misurare tutto con metodi razionali? I numeri sono oggettivi? Quale rapporto tra economia e politica, tra economisti e politici? Intervista all’economista Luigino Bruni
L‘altra sera in tv un importante direttore di una società di ricerca discettava sulle questioni relative alla manovra economica con l’estrema serenità e semplicità datagli dal fatto che, molto banalmente, stava lavorando coi numeri: “Questo è il totale da ricavare, quindi, visto che la matematica non è un’opinione, basta organizzare le cose in modo che questa sia la somma: elementare, Watson!”.
Invece le cose sono un po’ più complicate, perché né la politica né l’economia sono solo numeri. Ne parliamo con Luigino Bruni, economista, professore alla Bicocca a Milano.
Se l’economia non è solo numeri, dove finisce l’economia e inizia la politica?
«Fin dal suo inizio settecentesco, la scienza economica è stata chiamata "economia politica", per distinguerla dall’economia domestica. L’economia moderna nasce con uno strettissimo legame con la politica, come il suo strumento privilegiato, perché senza qualcuno che indichi come migliorare le condizioni materiali della vita, il bene comune e la pubblica felicità (i tipici obiettivi della politica) resterebbero cose astratte e vaghe.
«Oggi non tutta l’economia è in rapporto diretto con la politica, poiché molti economisti studiano l’impresa, le scelte di consumo e di risparmio, le banche, la finanza, ecc., ma una branca importante (l’economia "macro" o pubblica) continua ad essere in stretto rapporto con l’economia (tra parentesi, la tradizione italiana da sempre è caratterizzata da questo stretto rapporto tra economia e scelte pubbliche).
«L’economista "politico" dovrebbe offrire argomenti, numeri e dati al politico mettendolo nella condizione di scegliere sulla base di un razionale calcolo "costi-benefici". Quindi i numeri sono importanti, per varie ragioni. Innanzitutto perché senza assegnare numeri ai costi e ai ricavi delle scelte alternative non si hanno criteri razionali per decidere se è preferibile lo stretto sul ponte di Messina o il potenziamento della rete autostradale al Sud.
«E’ evidente, poi, che un buon politico e una buona democrazia sa che l’elemento economico è un elemento co-essenziali agli altri (etici, sociali …). Negli ultimi decenni, poi, l’economista non assegna soltanto numeri ai tipici costi e benefici "economici" (ricavi, tasse, spese …), ma anche a beni non di mercato che però sono suscettibili di valutazione economica, come l’ambiente e oggi anche le relazioni sociali.
«Facciamo un esempio: come fa un politico a decidere se aumentare, e di quanto, le tasse per costruire un nuovo parco in città? Una base importante è data dall’opinione che una data popolazione ha di quel nuovo parco, e per poter stimare queste preferenze ambientali si usa il metodo della "disponibilità a pagare" misurata sulla base di questionari. Certo ciò non significa che quel questionario misura il "valore intrinseco" dell’aria pulita, ma aggiunge elementi ad una scelta che è sempre complesse e multidimensionale.
«Qual’è però il rischio di questo metodo del "misurare" tutto in numeri (e in moneta)? Il politico, di fronte alla semplicità e intelligibilità universale del metro numerico e monetario, potrebbe dimenticarsi le altre dimensioni co-essenziali di una scelta e prendere i dati economici come gli unici rilevanti per decidere. E’ quanto accade quando si usano i freddi e oggettivi numeri per giustificare l’ineluttabilità di una decisione. I numeri e i valori monetari non dicono nulla in termini di equità e giustizia, dimensioni spesso più importanti per il bene comune. E questo è un errore grave, quasi più grave di far male i conti e assegnare numeri sbagliati ai vari elementi in gioco, errore molto comune in economia.
«L’errore più comune è quello di sbagliare il tasso di sconto di flussi che durano nel tempo: che cosa significa? Immaginiamo che dobbiamo decidere se costruire un impianto di energia eolica o continuare a bruciare petrolio per l’energia di una città. L’economista costruisce un piano di costi e ricavi delle due alternative, ma come conteggiare i costi futuri del petrolio tra 10 o 20 anni? L’economista indiano A. Sen sostiene che quando si tratta di stimare flussi che hanno effetti su generazioni future, dovremmo utilizzare un tasso di sconto negativo, cioè dare più peso al futuro rispetto al presente (il contrario di quanto normalmente si fa).
«E’ ovvio che la scelta di un tasso di sconto futuro più o meno alto può portare a preferire una scelta su un’altra: insomma, non sono così oggettivi i numeri che ci vengono portati come scientifici. Per non parlare dei numeri del Pil o delle stime delle entrate dovute alla lotta all’evasione fiscale, dove i margini di errore e discrezionalità sono molto alti».
Si parla spesso di governo tecnico, salvo poi tuonare contro i tecnocrati della Bce e sostenere che la "scienza" pura e semplice non può mandare avanti un Paese. Quali devono essere i rapporti tra il "tecnico" (ad esempio l’economista) e il politico? Come collaborare?
«Qui si apre un grosso tema che riguarda la democrazia nell’età della globalizzazione, e in particolare i burocrati europei. Dal punto di vista etico, prima che economico, ho forti dubbi sui costi della burocrazia europea: abbiamo dato vita a strutture europee a imitazioni degli stati nazionali, ipertrofici in termini burocratici. Personalmente sono convinto che se dimezzassimo i funzionari e i dipendenti europei l’efficienza dell’Unione non ne perderebbe, anzi ne guadagnerebbe, un po’ come in italia e in altri Stati nazione.
«Il tecnico non eletto dai cittadini che, numeri alla mano, impone regole ai Paesi è un tema che, per essere affrontato, richiederebbe una politica più matura ed europea. I politici nazionali in Europa prendono le direttive della Bce (o delle borse) come guida all’azione non solo per paura delle sanzioni, ma perché in un mondo in continua evoluzione, non avendo ancora sviluppato nuove chiavi di lettura politiche ed etiche della globalizzazione, si seguono le linee economiche perché sono le uniche presenti, o almeno le uniche comprensibili da loro (e dal pubblico).
«Diceva nel 1936 il grande economista Keynes che i politici " quali si credono affatto liberi da ogni influenza intellettuale, sono spesso gli schiavi di qualche economista defunto. Pazzi al potere, i quali odono voci nell’aria, distillano le loro frenesie da qualche scribacchino accademico di pochi anni addietro".
«Il politico, quando deve leggere il mondo, ha in mente gli strumenti che ha imparato all’università, che normalmente sono diversi decenni indietro rispetto alle dinamiche in corso. Quindi occorre più dialogo tra politici e tecnici, tra i politici e la gente. E più studio, cioè continuare ad aggiornarsi tutta la vita. Ne va della democrazia nell’età complessa e veloce che stiamo vivendo».