I nostri vicini Rom
Molti nomadi che vivono ai margini delle nostre città disturbano, perché «brutti, sporchi e cattivi», secondo le spiegazioni dei residenti vicini, e anche ingrati perché, se non ricevono quanto chiedono, si permettono pure di arrabbiarsi. Vengono spesso invitati a lavorare anziché chiedere l’elemosina, ma quanti nelle nostre comunità prenderebbero a lavorare uno di loro? Spesso non hanno documenti, e la legge punisce – giustamente – il lavoro nero, oppure è spesso pensiero condiviso che siano così per natura, immutabili da sempre e per sempre. Così, molti di loro a volte non possono accedere neanche a servizi di assistenza.
«In fondo, li consideriamo persone, oltre che cittadini, di serie B, dimenticando, forse, che probabilmente nostro Signore si riferiva anche a loro quando parlava di fratelli più piccoli da riconoscere», affermano i volontari del gruppo “Mosaico al margine” di Sesto Fiorentino, comune di cinquantamila abitanti a Nord-Ovest della confinante Firenze. Si tratta di un gruppo non istituzionalizzato, formato da persone molto diverse tra loro per età ed esperienze, che si occupa di Rom nel territorio sestese, cogliendone da oltre dieci anni tutte le criticità, i pregiudizi, le speranze, ma anche le cadute nell’illegalità e le difficoltà di creare condizioni per un’effettiva integrazione o, forse per meglio dire, interazione. Una testimonianza che merita ascolto e attenzione, non solo per la diocesi fiorentina.
«La maggior parte di essi, ormai stanziali, vive in un ‘campo nomadi’ da oltre venti anni. Queste persone sono state nella quasi totalità prive di regolarizzazione fino a poco più di un anno fa. L'assenza dello status di residenza legale ha impedito per molto tempo qualunque tentativo d’inserimento lavorativo», spiegano. Nel campo nomadi, situato in un’apposita area comunale presso la zona “Madonna del Piano”, dotato di minimali impianti (luce, acqua) per la necessità degli attuali nuclei familiari che sommano circa ottanta persone, prevale a oggi una situazione di precarietà che rende assai ardua e disagiata la vita dei residenti, in particolare degli anziani (pochi) e dei bambini (molti). Questi ultimi, fino a poco tempo fa, accompagnavano le donne nell'accattonaggio. Ora questa pratica di sfruttamento minorile, contrastata giustamente con forza dall'autorità pubblica e da ogni gruppo assistenziale, è quasi scomparsa.
I contatti del gruppo “Mosaico al Margine” con le persone del campo Rom, anche se comportano necessariamente qualche forma di aiuto economico, hanno lo scopo soprattutto di attivare con adulti e bambini rapporti di confidenza e familiarità e di arrivare a una condivisione di valori, superando le reciproche diffidenze e incomprensioni. Si cerca soprattutto di favorire e incoraggiare occasioni d’integrazione sociale, tentando di incidere anche sulla "cultura" della comunità locale, comprensibilmente diffidente e ostile. Certamente questa situazione di marginalità, cioè d’irregolarità e di mancanza di lavoro per tutti i rom, rende inevitabilmente difficili se non conflittuali le relazioni con la cittadinanza e problematica l'accettazione del loro insediamento. Tuttavia una buona notizia è il fatto che, grazie anche alla sensibilità del gruppo e del parroco della parrocchia di San Martino a Sesto Fiorentino, don Daniele Bani, diverse persone del campo abbiano chiesto il battesimo: il sacramento è stato celebrato per diversi bambini e ragazzi lo scorso 15 giugno, mentre un gruppo di adulti sta oggi facendo un percorso catecumenale di preparazione allo stesso sacramento. Qualcuno di loro ha iniziato a lavorare, qualcuno sta avviando un’impresa, molti rispondono alle sollecitazioni della comunità sestese.
I Rom hanno avuto una lunga storia di emarginazione e persecuzione. Sappiamo che, come gli Ebrei, durante la Shoah, anche questo popolo fosse annoverato quale “etnia pericolosa da eliminare” in quanto diretta minaccia per la sublime razza ariana: considerati ladri, truffatori, assassini e nomadi per cause genetiche; predeterminati, insomma, e perciò incorreggibili. In merito ai recenti fatti di cronaca, sembra che ancora in tanti siano tentati di pensarla così ma quest’atteggiamento ha un nome solo: si chiama razzismo, tende ad emergere nei momenti di crisi collettiva ma, come tale, non è accettabile che venga alimentato. Certo non si può continuare, come fatto per decenni nella maggior parte delle città interessate da insediamenti Rom, a rispondere con due tanto sterili quanto polarmente opposte modalità: da una parte, un “buonismo” superficiale, che considera a priori positivo e intangibile ogni aspetto della vita dei Rom, persino comportamenti palesemente illegali e forieri di un circolo vizioso di auto-ghettizzazione sulle spalle della comunità; dall’altra atteggiamenti opposti, odiosi e infondati, di ostilità ideologica, che scaricano su questa minoranza le frustrazioni derivanti dalle difficoltà economiche e sociali.
«Quando in passato si è accettata l’ipotesi di un intervento sociale e politico, tanto a livello locale come a livello nazionale – affermano i volontari del gruppo – spesso si è assistito a un rimpallo costante di responsabilità, oppure a decisioni prese ‘sulla testa’ delle persone, considerate e trattate più come cifre di un problema che come persone dotate di dignità e diritti al pari di tutti. Un esempio per tutti potrebbero essere gli sgomberi forzati dei campi abusivi, in cui la preoccupazione prevalente sembra essere quella di far ‘sparire’ le persone, ritenendo così di eliminare il problema, puntualmente così di fatto solo destinato a ripetersi. Certo la soluzione non sta nel mantenere i cosiddetti ‘campi rom’, o addirittura nel costruirne di nuovi, magari più ‘belli’, ma sicuramente emarginanti».
Spesso accade che le amministrazioni comunali si muovano in uno slalom tra la tutela della legalità e della sicurezza, sempre necessarie, e il dovere costituzionale di rispettare e accogliere quanti si trovano senza un tetto solo quando non si rischi di incorrere in una momentanea perdita di consensi, restando sempre in una logica di breve periodo, che non fa altro che procrastinare il “problema”. Che fare? Prima di tutto è necessaria un’assunzione di volontà e responsabilità condivisa da parte delle istituzioni politiche, associative ed ecclesiali: sedersi al tavolo per pianificare una logica di lungo termine, senza paura del primo impatto mediatico o di perdita di consenso che questo coraggioso atto politico può provocare. Liberi dalla “logica da campagna elettorale”, la politica deve assumersi il coraggio di tenere fede alla sua vocazione, a partire dagli ultimi: «Sortirne insieme è la politica», insegnò in primis ai toscani don Lorenzo Milani.
«Riteniamo che situazioni così complesse e delicate non possano essere affrontate al di fuori di una sinergia tra soggetti diversi: esistono in Italia varie esperienze virtuose in cui, nello sforzo comune di superamento dei pregiudizi – affermano i volontari sestesi – la carta vincente è stata data dalla collaborazione tra istituzioni e società civile. Pensiamo pertanto necessaria una progettualità di più ampio respiro, che vada oltre l’emergenza: casa, salute, istruzione, lavoro, assieme al necessario rispetto della legalità, possono consentire di dare prospettiva a lungo termine a una condizione che rischia altrimenti di autoriprodursi nella precarietà e nell’illegalità, o addirittura di diventare esplosiva». Si parta allora da un’esigenza di conoscenza, a livello personale e giuridico, di queste persone e della loro situazione; si pianifichi la chiusura di campi ghettizzanti ed emarginanti attraverso progetti di medio e lungo termine, che chiamino in causa direttamente amministrazioni coordinatrici, forze civili ed ecclesiali ad un cammino condiviso; un cammino che possa continuare a portare ad esempio i più piccoli a seguire costantemente la scuola e le attività di aggregazione e svago offerte dal territorio, e i più adulti a mettersi in gioco con responsabilità in attività lavorative dignitose, vivendo al contempo non in baraccopoli ghettizzanti.