I No di Orbán. Il No a Orbán
Il premier ungherese, quest’estate, durante il convegno annuale del suo partito, ha spiegato il vero senso del referendum sulle quote: ottenere un sostegno popolare “forte come un toro” per la sua politica verso Bruxelles e mantenere la maggioranza di due terzi anche nelle elezioni del 2018.
Sui cartelloni sparsi in tutto il Paese si leggeva: “Mandiamo un messaggio a Bruxelles che capiscano anche loro”. Si trattava di far valere le ragioni del popolo ungherese che non vuole accogliere migranti e rifiuta la società multiculturale.
Gli ungheresi dovevano rispondere a questa domanda: Volete che la Ue possa imporre, senza il consenso del Parlamento, un insediamento obbligatorio dei cittadini non ungheresi in Ungheria?. Tra quelli che sono andati a votare, il 98 per cento ha votato No, che corrisponde al 39,4 per cento di tutti gli aventi diritto al voto. Per il premier ungherese questa è «una vittoria travolgente» dei No alla politica dell’Ue e una legittimazione forte per la sua linea.
In realtà, la quota di partecipazione al voto raggiunge solo il 43,23 per cento, ben sotto il quorum del 50 per cento necessario perché il referendum sia valido. È una sconfitta per l'ampia maggioranza della Fidesz, partito del premier, e ora le opposizioni, sia la sinistra radicale che l’estrema destra, chiedono al premier di dimettersi.
Grande attesa per le reazioni dei leader delle maggiori potenze della Ue. Intanto Orbán, lunedì mattina in Parlamento, ha iniziato il processo di cambiamento della Costituzione per far valere “la volontà popolare espressa nel referendum”.
Nel frattempo la campagna del governo, che è costata attorno a 3,5 milioni di Euro, lascia in tanti ungheresi sentimenti negativi e xenofobi nei confronti dei migranti, oltre ad una divisone nel Paese. Ma si sente che in tanti c'è anche un risveglio di responsabilità per favorire una politica di dialogo, sia all’interno che all’esterno dell’Ungheria.