I negoziati di Vienna sul nucleare
Si è conclusa in questi giorni a Vienna la quarta sessione dei negoziati sul nucleare. Protagoniste da una parte le sei potenze – i cosiddetti 5+1, i membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell'Onu e la Germania – e dall’altra l’Iran. Dopo gli accordi ad experimentum del novembre scorso, si tratta ora di arrivare a un protocollo che possa dare stabilità e garanzia di sicurezza per tutti. Il punto cruciale resta ancora quello sulla quantità e sulla capacità di produzione del nucleare che l’Iran potrà conservare in base all’accordo con i suoi interlocutori al tavolo dei negoziati. Fin dalla conclusione della prima tornata di colloqui si è parlato di cauto ottimismo e la decisione, lo scorso mese, del Paese asiatico di ridurre la produzione di uranio sembra confermare, come è stato già sottolineato su questo quotidiano, che è possibile trovare vie di coesistenza costruttiva per un futuro più stabile e senza le tensioni che hanno caratterizzato la politica internazionale negli anni scorsi.
La questione, comunque, resta ancora delicata. Non sono pochi, sia negli Usa che in Europa, coloro che ritengono che per parlare di successo dei colloqui sia inderogabile l’impegno iraniano a diminuire drasticamente la produzione nel settore nucleare. Molti, all’interno del Congresso americano e in ambito internazionale, oltre ad Israele, da sempre preoccupato di essere il vero obiettivo di un eventuale uso militare del nucleare iraniano, restano scettici e sospettosi rispetto all’apertura della gestione Rohani.
Il nuovo presidente, che pure ha chiaramente dato una sterzata alla politica del suo Paese a favore di un dialogo con gli Usa e le potenze occidentali, ha messo in chiaro che non è pensabile imporre alla nazione asiatica delle restrizioni sulla sua politica di ricerca nucleare. In un recente intervento pubblico Rohani ha chiaramente parlato di essere aperto a nuove ispezioni dall’esterno, ma ha anche chiarito che non è pensabile imporre all’Iran di smantellare parte dell’infrastruttura nucleare. Secondo un’analisi pubblicata in questi giorni dal New York Times, il nuovo presidente iraniano avrebbe affermato: «Abbiamo solo la trasparenza da mettere sulla tavola e da offrire loro. È tutto! La nostra tecnologia nucleare non è oggetto di negoziato».
La grande preoccupazione, soprattutto dell’amministrazione Obama, sembra essere quella di raggiungere un accordo che permetta all’Iran di mantenere una infrastruttura sufficiente a salvare la faccia e allo stesso tempo tanga gli esperti nucleari del Paese ancora a una debita distanza dalla realizzazione di armi atomiche. La questione resta complessa, soprattutto per le pressioni che l’amministrazione Obama deve affrontare in casa propria e per le condizioni poste da Israele. Lo stesso New York Times riconosce che Tel Aviv ha posto l’asticella troppo in alto per permettere che i negoziati possano arrivare ad una soluzione positiva in tempi brevi.
Le trattative, quindi, non saranno semplici, ma – è speranza di molti – potrebbero concludersi con un protocollo d’intesa definitivo in una delle prossime sessioni. Perché questo accada, tuttavia, è necessario che i 5+1, in particolare i Paesi occidentali, mostrino un atteggiamento più positivo. In questi giorni, infatti, non sono mancati e continuano a non mancare valutazioni negative sulla posizione di Rohani e sull’atteggiamento iraniano. Organi di stampa prestigiosi parlano spesso di astuzia politica da parte dell’Iran con frasi che possono suonare denigranti, insistendo ancora sul fanatismo e sull'incapacità di Teheran di essere credibile. Si accusa la nuova gestione di cercare in qualsiasi modo di arrivare alla cancellazione delle sanzioni economiche che durano da decenni. Rohani stesso è criticato per la posizione assunta, dieci anni fa, in occasione delle discussioni sul nucleare. L’attuale presidente era a capo della delegazione iraniana. Oggi alcuni osservatori in Occidente lo accusano di essere al potere con il mandato di imbrogliare Stati Uniti e Paesi europei.
Inoltre, proprio la stampa di maggior rilievo sia in Usa che in Inghilterra esprime forti critiche all’amministrazione Obama per aver ceduto a compromessi, a partire dal paventato attacco in Siria del settembre scorso fino ai negoziati di Vienna, che hanno raggiunto un accordo da molti ritenuto inadeguato e privo di garanzie. Si parla anche di trappole tese dalla nuova amministrazione iraniana a conferma della necessità di una linea più dura.
Se queste sono le premesse i colloqui di Vienna saranno senza dubbio difficili. Come già detto in passato, ancora una volta i Paesi occidentali sembrano miopi e unilaterali sulla questione. Se da un lato è necessaria una garanzia per gli equilibri internazionali, dall’altro si continua a non tener conto della sovranità delle nazioni e atteggiamenti e giudizi sono offensivi alla loro dignità, qualsiasi siano il colore politico attuale e i trascorsi storici. Se c’è un aspetto che l’Iran non ha mai accettato è l’interferenza dall’esterno, un elemento decisivo nella rivoluzione khomeinista, che non è iniziata come un moto religioso, ma come una reazione socio-politica di massa alla gestione del potere dello scià Reza Pahlevi e al processo di occidentalizzazione che il re aveva preteso di imporre a tutti i costi con conseguenze gravi. La reazione, successivamente trasformatasi per il ruolo di Khomeini e del clero sciita, era, dunque, proprio ad una politica dettata dall’esterno. A distanza di 35 anni sembra che non si sia imparata la lezione.
È necessario un atteggiamento diverso, di vero dialogo. Sedersi al tavolo dei negoziati significa considerare tutti partner uguali nel processo di pace e di controllo del nucleare. Oggi, potenze mondiali che posseggono arsenali nucleari non possono imporre ad altri Paesi, in nome della pace, di limitare ricerche e produzione nucleare. Tutti, in qualche modo, devono mettersi in discussione.
Quello che molti Paesi, e l’Iran è fra questi, contestano è uno scenario dove alcuni si autonominano custodi della pace e dell’ordine mondiale. È una geo-politica ormai datata, sconfitta, come ha dimostrato la storia di questi decenni. Molti, invece, paiono intestardirsi su questa prospettiva. La necessità più seria non è quella di imporre o sollevare sanzioni all’Iran e nemmeno quella di dettare condizioni, ma, piuttosto, la ricerca comune di vie dove le potenze mondiali possano trovare modi per coinvolgere in modo credibile altri Paesi nei processi di promozione della pace e prevenzione dei conflitti.