I muri della politica e la politica dei muri
Pasquale Ferrara: Ci siamo davvero resi conto, al di là del battage mediatico, dei cambiamenti mondiali? Viene il dubbio che l’ottica nella quale valutiamo gli eventi globali sia ancora prigioniera di vecchie categorie, esclusivamente nazionali. Ma oggi le questioni sono in gran parte transnazionali. Mentre la maggior parte delle attività umane e sociali – per non parlare dei fenomeni a-frontalieri (che non riguardano solo singole regioni) come il cambiamento climatico, l’inquinamento o i rischi nucleari – ormai si svolge a prescindere dall’esistenza dei confini interstatali, la struttura politica fondamentale del mondo rimane testardamente ancorata a una dimensione territoriale che non trova più riscontro nella fenomenologia dei processi globali. Il mondo – specie quello economico e finanziario – ragiona in termini di flussi, noi invece ragioniamo, dal punto di vista delle politiche nazionali, ancora in termini di stock.
Nell’Unione europea affermiamo spesso, con un certo compiacimento, di trovarci in una condizione post sovrana e post nazionale. Si sostiene persino che l’UE sia la realizzazione del progetto di “pace perpetua” tanto agognato da pensatori e filosofi nel corso dei secoli, che trova la sua più alta espressione in Kant. Kant tuttavia era un cosmopolita ante litteram. Ad esempio, affermava che «originariamente [e cioè prima della nascita dello Stato-nazione] nessuno ha più diritto di un altro ad abitare una località della terra». Questa parte del pensiero di Kant è però oggi messa in sordina. Nei nostri sistemi politici prevale ancora il “sovranismo”: i limiti della polity, cioè i criteri di inclusione/esclusione nella comunità, sono ancora in gran parte definiti dal criterio territoriale o giuridico della cittadinanza. Il paradosso, ma direi il vero scandalo, è che se oggi una merce qualunque entra nell’UE, nel mercato unico, ad esempio attraverso il porto di Amsterdam, una volta assolte le procedure doganali può liberamente circolare in tutto il territorio dell’Unione. Se invece a Lampedusa o Pozzallo o a Lesbo entra un essere umano, anche dopo che sia stato verificato il suo status di rifugiato, non può spostarsi in nessun altro Paese dell’Unione.
Siamo in un mondo di scambi liberalizzati per merci, capitali e servizi; ma per le persone i confini non solo permangono, ma spesso diventano muri e barriere invalicabili. La società sarà anche liquida, come dice Bauman, ma le frontiere sono sempre più solide. Eppure una bella definizione dell’uomo ce lo presenta come «l’essere che passa le frontiere» (Y. Cattin); la situazione transfrontaliera è una condizione antropologica.
Michele Zanzucchi: Di fatto non esiste un realistico piano europeo di assorbimento della migrazione, che si basi cioè sulle cifre degli arrivi negli ultimi anni e sulle incognite della politica internazionale. L’Europa di questo fenomeno ha capito poco o nulla, purtroppo. I migranti vengono in Europa da Sud e da Sud-Est per due ragioni: per sfuggire alle tante guerre che colpiscono sia il Medio Oriente che l’Africa e, soprattutto, per cercare un tenore di vita migliore. Tale flusso non è arginabile non solo nel breve termine, ma nemmeno nel medio o lungo termine.
[…] I diversi Paesi europei, presi alla sprovvista da un’ondata che forse era prevedibile ma che non è stata prevista, hanno cominciato ad agire in ordine sparso.
[…] Si ha l’impressione non solo che non si riescano a capire coloro che bussano alla porta, ma che non ci si capisca tra abitanti della stessa vecchia Europa. Sembra che manchi una “visione”: ci si insterilisce in polemiche intestine senza guardare alle opportunità che potrebbero nascere da una corretta gestione del flusso migratorio.
[…] Nei fatti sembra si sia innescata una reazione di paura e pessimismo a catena, ma sola via che sembra poter salvare l’Europa dall’abisso è la concertazione. L’Europa o è solidale o non è. Rischia la dissoluzione.
da "Immigrazione" di Raffaella Cosentino, (Città Nuova, 2016)