I morti nelle carceri dell’Honduras

Tra problemi economici e di sicurezza, il Paese conosce una gravissima situazione nelle prigioni. Anche ieri 13 morti
Carcere Puerto Cortés

Arrivo a San Pedro Sula, la capitale economica dell’Honduras – quasi un milione di abitanti e una gran quantità di stabilimenti industriali – che m’annunciano una tragedia carceraria, l’ennesima, quattro in un anno: 13 morti e dozzine di feriti a due passi da dove alloggerò, nella casa circondariale di San Pedro Sula.

La faccenda mi colpisce non poco, perché l’indomani ho in programma una visita proprio al vicino carcere di Puerto Cortés, massimo porto del Centroamerica, 50 chilometri a nord di San Pedro Sula. Nella memoria resta ancora il ricordo della strage del carcere di Comayagua, nel febbraio 2011, vicino alla capitale Tegucigalpa, che aveva fatto più di 360 morti, asfissiati o arsi vivi.

Sui media impazzano i resoconti e le indiscrezioni di polizia su quest’ennesimo drammatico episodio. Il fatto è che, come potrò costatare visitando il carcere di Puerto Cortés, molto più piccolo di quello di San Pedro Sula – 160 reclusi nel primo, 2400 nel secondo –, le condizioni di vita in questi luoghi di detenzione sono infraumane: ho visto stipati in stanzette di 9 metri quadri 19 persone, come sandwich a quattro livelli! Condizioni comunque indescrivibili, in cui un cortocircuito è più che probabile e non solo possibile, tanto più che di notte le celle vengono sbarrate, senza poi che vi sia alcun controllo di quanto accade in esse. Di uscite di sicurezza, beh, meglio non parlarne nemmeno.

Denuncia il vescovo ausiliare di San Pedro Sula, mons. Rómulo Emiliano, mediatore apprezzato della crisi nel carcere della sua città: «È intollerabile che esseri umani vivano in condizioni tanto precarie. Bisogna assolutamente costruire nuove carceri nel più breve tempo possibile. Siamo esseri umani, dobbiamo trattarci da esseri umani». Cose da non credere, se si pensa, poi, che piccole e grandi mafie nelle prigioni hanno vita facile, anche con la complicità di tanta parte delle forze di polizia, corrotte e corruttrici. Una piaga. E non si esclude che dentro questi incendi si celino vendette tra bande rivali.
 
La mancanza di sicurezza è in effetti il principale problema attuale di tutti i Paesi centroamericani, dal Messico al Nicaragua. La crisi delle dittature e l’avvento stentato delle democrazie elettorali hanno portato da un lato a una gravissima crisi economica con un grave accrescimento delle disuguaglianze sociali, e dall’altro ad un trionfo del narcotraffico, che ha ormai in mano non solo ampi settori dell’amministrazione pubblica, ma anche vasti settori dell’industria privata, ottimi per riciclare il denaro illecitamente guadagnato.

In Honduras si aggiunge il problema di uno scriteriato aumento delle cosiddette “zone libere”, cioè delle zone industriali vendute agli stranieri e alle loro imprese, che vi costruiscono fabbriche e officine senza controllo alcuno e senza altri costi che quelli per le maestranze impiegate: neanche un dollaro di tasse per lo Stato honduregno. Quando uno dei recenti governi cercò di introdurre una pur minima imposta, le multinazionali hanno minacciato di lasciare il Paese, cosa che avrebbe dato fuoco alla miccia della bomba sociale deflagrante di milioni di disoccupati. Marcia indietro, e rinviata ancora la nascita di industrie autoctone.

Con il corredo di una gravissima crisi istituzionale che ha portato di nuovo al potere “Pepe”, cioè Porfiorio Lobo Sosa. Per giunta, le multinazionali non pagano nemmeno il salario minimo di 6800 limpares, cioè 330 dollari Usa, col pretesto di pagare di più chi produce di più: cottimo, in poche parole. Con l’apertura di un altro terribile fronte di tensioni sociali e familiari.
 
Eppure. Eppure gli honduregni non perdono la proverbiale speranza, s’adattano a situazioni umane quasi insostenibili e credono in un futuro migliore, sull’esempio di quanto ha dichiarato la madre di una delle vittime di ieri al carcere di San Pedro Sula: «Dio sa tutto, Dio me l’ha dato, Dio me l’ha tolto, Dio penserà a noi». Ma ora lo scandalo delle prigioni honduregne deve finire, «basterebbero pochi milioni di dollari per sistemare in modo degno i detenuti delle prigioni del Paese, costretti in 22 centri sovraffollati», mi dice il cappellano del carcere di Puerto Cortés.

Forse una maggior attenzione dell’opinione pubblica internazionale potrebbe costringere il governo honduregno a investire qualche dollaro in più per questi «più poveri dei poveri».
 

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