I mille volti di São Paulo
São Paulo non è una sola, sono molte. Se sali in cima all’Edificio Italia, nel cuore della città, vedi una foresta di grattacieli a perdita d’occhio. Non è che siano altissimi (l’Edificio Italia ha 41 piani), ma sono tanti, tanti. E sparsi su tutta la superficie della città: São Paulo è situata a 700 metri, in un continuo saliscendi che apre continuamente scenari nuovi, ma l’elemento che non manca mai sono i grattacieli.
Lasciando il centro e andando verso la periferia – se vai in macchina ci vogliono alle volte due ore – cambia l’architettura: case più basse (ma dominate dagli immancabili grattacieli) e baracche, cioè favelas. Ma la città presenta una sua caratteristica specifica: se è vero che le favelas raccolgono la popolazione povera respinta dal centro verso la periferia, anche qui si incontrano quartieri ricchi, mentre andando al centro ci si imbatte in edifici fatiscenti, che tradiscono un passato dignitoso, ma che ora al loro interno raccolgono famiglie ammucchiate in stanze singole ricavate dalla suddivisione di appartamenti anteriori, in condizioni di sovraffollamento e gravi problematiche igienico-sanitarie (un servizio igienico per 20-30 persone). Si chiamano cortiços (alveari) e a confronto la situazione delle favelas è senza dubbio migliore: i loro abitanti possono almeno vedere il cielo.
Ricchi e poveri, vicini
I poveri sanno perciò come vivono i ricchi, addirittura entrano nelle loro case, soprattutto le donne che vi lavorano come domestiche. Per i ricchi, invece, nella quasi totalità non vale l’inverso: per pregiudizio, per paura, perché non hanno motivo per andarci, non conoscono dove e come vivono i poveri. A meno che qualcuno debba rifornirsi della sua dose di droga. Io ho lavorato per quasi vent’anni nella favela “Coréia” di São Paulo, sono stato il primo prete a metterci piede. Fa parte di una parrocchia: ma la maggior parte dei parrocchiani non sa dove si trova.
Con gli ultimi governi, soprattutto di Lula e di Dilma Youssef, il Brasile sta conoscendo un momento di forte crescita, che lo pone fra i Paesi emergenti (Brics), con politiche sociali che hanno favorito una più giusta distribuzione del reddito e la conseguente riduzione della povertà. Questo si è riflesso anche nel miglioramento della situazione delle favelas di São Paulo e di tutto il Paese, favorito anche dai programmi di riqualificazione del comune e dall’iniziativa degli stessi favelados. Ho potuto vedere con i miei occhi la loro industriosità e solidarietà. Quando sono entrato nella favela, le abitazioni erano quasi tutte in legno; attualmente si possono contare sulle dita di una mano.
Uno dei sistemi più interessanti di socializzazione è il mutirão, che viene dalla cultura indigena: tre-quattro famiglie si uniscono e si costruiscono le loro case, mettendo in comune il materiale e la mano d’opera. In questo modo, nella favela “Pedreira”, vicina a quella dove lavoravo io, gli abitanti, affiancati da giovani del Movimento dei focolari, hanno trasformato in case 160 baracche di legno.
Una delle cose che mi ha meravigliato di più tornando in Italia è stato lo spazio che i media danno a singoli episodi di criminalità, soprattutto nel caso di omicidio, cosa che avviene meno in Brasile. Non che non ne parlino, ma solo per quelli più assurdi o che colpiscono persone in vista; in questi casi in modo pesantemente scandalistico. La ragione è che la violenza è molto maggiore e fa parte della quotidianità, ci si è abituati, purtroppo. Ho visto varie volte i bambini di favela guardare il cadavere di un assassinato con curiosità senza paura o ribrezzo. Ma per fortuna attualmente São Paulo non è più al vertice delle classifiche della violenza del Paese: dal 2004 al 2009 c’è stata una caduta del 50 per cento del numero degli omicidi, concentrati nelle periferie povere.
11 milioni, anzi 19
Da dove viene il nome della città? Alla fine del 1553 un gruppo di una dozzina di gesuiti, guidati da Manoel de Nóbrega e José de Anchieta, salì dal mare attraverso la foresta e raggiunse il villaggio indio di Piratininga. Secondo la loro metodologia, costruirono un collegio per la catechesi degli índios e lo inaugurarono con la celebrazione della messa: era il 25 gennaio 1554, festa della conversione di san Paolo. Da qui il nome dato alla città 157 anni dopo.
Quel villaggio si è trasformato in una metropoli di più di undici milioni di abitanti, che raggiunge i 19 con i municipi all’intorno, che formano urbanisticamente un tutt’uno (il 10 per cento della popolazione brasiliana). Una metropoli multirazziale, dove tutti si trovano a casa. Guardando le facce della gente per le strade non si può dire a nessuno: «Tu sei straniero». Il bianco (castano o biondo), il nero, il mulatto, l’orientale parlano tutti la stessa lingua, fanno il tifo per la maglia verde e gialla, mangiano il churrasco, riso e fagioli.
Ai primi abitanti indios si sono aggiunti e mescolati i colonizzatori portoghesi, poi gli schiavi neri addetti alle piantagioni di caffè dell’interno. Alla fine dell’Ottocento si è verificata una vasta immigrazione, di varia provenienza, con prevalenza degli italiani. Attualmente São Paulo è la città con maggiori popolazioni di origine italiana, portoghese, spagnola e libanese fuori dai rispettivi Paesi.
Inizialmente gli italiani nella maggioranza hanno preso il posto – e, spesso, le condizioni – dei neri che avevano abbandonato le coltivazioni dopo l’abolizione della schiavitù. Ma a poco a poco, con la loro intraprendenza, hanno salito la scala economica e sociale, hanno creato industrie fiorenti, collocandosi fra gli artefici della costruzione della moderna São Paolo industriale, attualmente il centro finanziario dell’America Latina.
Degli undici milioni di abitanti della città, il 60 per cento possiede qualche ascendenza italiana: superano in numero i romani! È perciò frequente imbattersi in cognomi italiani, alle volte storpiati dagli impiegati che registravano quegli immigrati il più delle volte analfabeti al loro arrivo al porto di Santos. In centinaia di ristoranti, trattorie, pizzerie, milioni di persone consumano cibo italiano. Il primato appartiene alla pizza (circa di un milione al giorno nel 2008), molte volte trasformata dalla creatività brasiliana: pizza di frutta o di cioccolato!
Anche i giapponesi!
Un secolo fa sono poi arrivati i giapponesi, dediti inizialmente all’agricoltura nelle terre vicine, ma spostatisi massicciamente verso la città fino a formare un quartiere tipico al centro, la “Liberdade”, dove si ha l’impressione di trasferirsi in una città nipponica, con le scritte in caratteri su negozi e ristoranti, lampioni orientali, decorazioni tipiche di quella cultura nelle strade. Ma le ultime generazioni si sono sempre più assimilate alla cultura brasiliana, non parlano più la lingua originale, hanno assunto il modo di vestire, la gestualità, i gusti del Paese.
La mobilità è una delle caratteristiche del Brasile, non solo geografica: a São Paulo trovate anche gruppi etnici provenienti da tutti gli angoli del Paese, soprattutto dal Nordest povero. Ma c’è migrazione anche religiosa, che si registra maggiormente a livello delle grandi concentrazioni urbane e chi ne fa le spese è, guarda caso, la Chiesa cattolica. Per limitarci al caso di São Paulo, i cattolici sono il 65 per cento della popolazione e i protestanti tradizionali assieme agli evangelici oltrepassano il 18 per cento con tremila templi, di tutte le misure e i gusti. Nel 1990 i cattolici rappresentavano quasi il 79 per cento e gli altri cristiani meno del 9 per cento. Non voglio generalizzare (ci sono molti protestanti autenticamente “evangelici”, vari dei quali mi hanno arricchito con la loro fede e fraternità), ma molte Chiese evangeliche, soprattutto neo-pentecostali, sono una notevole fonte di arricchimento per i loro dirigenti. Ho assistito varie volte ai culti della “Chiesa universale del regno di Dio”, una potenza economica – possiede tra l’altro la seconda Tv del Paese –: il lungo discorso del pastore, condotto secondo i canoni della psicologia di massa, è finalizzato unicamente alle varie collette. Il tutto è ispirato alla “teologia della prosperità”, di origine nordamericana: Dio è onesto e mantiene le promesse. Se tu gli dai (denaro), ti dà le grazie che chiedi (fortuna, lavoro, salute, armonia familiare…).
Una sfida per la Chiesa
Durante il ventennio della dittatura militare (1964-85) la Chiesa cattolica è stata l’“ombrello” sotto il quale si sono riparati tutti, era l’unica forza d’opposizione temuta dal regime, sotto la guida del card. Paulo Evaristo Arns. Era pericoloso, ma, dall’altro canto, chiaro: c’era un unico obiettivo, la difesa dell’uomo e la libertà. Adesso la voce della Chiesa è una delle tante e non la più ascoltata; il pluralismo politico, culturale e religioso pone sfide nuove, davanti alle quali non ci sono risposte preconfezionate e l’unità è più difficile. L’impressione a volte è che la megalopoli dai mille volti sfugga alla capacità della Chiesa.
Una risposta più appariscente, ma parziale e non adeguata alle provocazioni radicali della cultura urbana, la si può trovare nel movimento carismatico, con grande attrazione sul popolo. Dall’altro lato ci sono le innumerevoli istituzioni caritative, organizzate e spontanee, a servizio delle piaghe sociali della metropoli e che accendono luci di fraternità e di speranza fra le strade e le piazze della megalopoli.
São Paulo assomiglia alle nostre città.