I migranti che raccolgono la frutta sono miei amici

Stefano studia medicina a Torino, vive a Saluzzodove dove durante il raccolto estivo, centinaia di giovani africani arrivano in cerca di un lavoro. La Caritas ha approntato un campo e dentro e fuori le tende sono nate tante amicizie
Migranti al lavoro

Stefano studia medicina a Torino, vive a Saluzzo una città che dai piedi della valle Po, si estende in una pianura tutta coltivata a frutta. Pesche, albicocche, kiwi e mele. La mia città, racconta Stefano è ormai da anni meta per molti ragazzi africani che, durante l’estate, vanno alla disperata ricerca di un lavoro e vengono impiegati per la raccolta della frutta. Dall’estate scorsa la Caritas, insieme ad altre realtà, ha dato origine ad un progetto grazie al quale è stato possibile realizzare un campo di lavoro con l’obiettivo di consentirgli anche una vita dignitosa. Così sono state montate le tende per 200 persone, ma i presenti da accogliere alla fine erano quasi 500. Alcuni di questi giovani erano reduci dalla guerra civile in Mali e, dopo avere visto uccidere i loro familiari uno dopo l’altro, sono fuggiti in Libia, paese dal quale via mare hanno raggiunto l’Italia nei modi che vediamo tutti i giorni in tv. Altri invece, più fortunati, sono arrivati in aereo a Malpensa da Costa d’Avorio e Burkina Faso, dove le condizioni non sono a rischio vita.

Durante la notte il campo era presidiato da volontari di diverse associazioni. Stefano è stato uno di questi. «Il fatto di trascorrere tra quelle tende così tanto tempo mi ha permesso di stringere legami che sarebbe stato impossibile stringere in altre occasioni. Ho fatto molta amicizia con alcune persone mentre con altre ci siamo fermati a un “Ciao”. Il loro carattere molto socievole, non so se imposto dalla situazione di necessità o se tipico proprio della loro cultura e mentalità, rendeva l’approccio molto facile (inutile dire che però anche in questo caso puoi beccare quello duro e introverso che si gira dall’altra ad un tuo cenno di saluto). Mi ero promesso di non scriverlo, perché è davvero la cosa più banale che si possa fare in questi casi, ma è proprio così, sono andato là per aiutare e sento di avere ricevuto molto più di quello che ho dato».

La disperazione raccontata nei telegiornali di ragazzi stipati su un barcone con il miraggio di raggiungere vivi le coste di Lampedusa ha un volto e anche una fede perché, continua Stefano: «Grazie a loro ho toccato con mano il volto più bello e puro dell’Islam. La violenza degli estremisti mi è sembrata ancora più stupida quando uno dei ragazzi avvicinandosi ha detto: “Ah sei cristiano? Io musulmano invece. Beh cosa importa? Dio è uno solo!”. Di fronte a tante attestazioni di gratitudine mi è sembrato ancora più squallido il razzismo e i luoghi comuni che alcuni politici cavalcano per attirare le simpatie dei votanti».

Poi ci sono le serate trascorse a parlare fino a tarda ora con Tim, un professore di francese della Costa d’Avorio che si scrive il nome di Stefano sull’ agenda per pregare per lui . Non aveva nulla, dormiva su un materassino in mezzo ad altre 500 persone, lontano dal posto in cui sua moglie e la sua bambina lo aspettavano, ma trovava comunque la forza e la volontà di preoccuparsi dei dettagli personali di tanti e nonostante le difficoltà ogni giorno usciva dalla tenda esclamando: «Ah! La vita è troppo bellissima!». Baranuf, ivoriano, apparenza sbruffone, appassionato di musica reggae, che, tra una sigaretta e l’altra, piange ancora per la madre morta e per le indimenticabili gite insieme a. Abrahm e la sua granitica fede nell’Islam, Salif appassionato soprattutto di ragazze e di calcio, che a suo dire gioca nella Primavera del Brescia e promette biglietti gratis quando debutterà. Boua buttafuori per una discoteca di Bologna, organizzatore di eventi e ora contadino. E poi Yousuf  che si è fatto Saluzzo – Cuneo in bici per cercare un lavoro, che puntualmente non ha trovato.

«Non avvertivo senso di “invasione” o “inquinamento” della nostra cultura quando li vedevo pregare verso la Mecca, ma mi ha toccato la loro sofferenza, il viaggio sul barcone, la lontananza da mogli e figli per anni perché “il biglietto costa troppo”, la delusione di un ragazzo nello scoprire che il cartone che era riuscito a procurarsi per dormire sul marciapiede gli era stato rubato. Se dovessi  scegliere una delle mille cose lasciatemi da questa esperienza direi che è la certezza che una convivenza tra popoli diversissimi tra loro è davvero possibile e, per quanto mi riguarda, d’ora in poi sarà molto più facile vedere à un Tim, un Baranuf, un Salif, un Boua e non solo più un “povero”».

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