«I miei ultimi mesi voglio viverli così»
Sul libro degli ospiti, un malato ha scritto: «Non è vero che finché c’è vita c’è speranza: finché c’è amore, c’è speranza». Tuttavia, l'Hospice della Madonna dell’Uliveto, a Reggio Emilia, luogo di conforto e assistenza, è una istruzione “trasgressiva”, perché dà visibilità alla morte.
Al contrario della cultura dominante, non confonde le idee: chiede il consenso esplicito alle cure palliative. C’è infatti chi dice che l’Hospice non sia per l’Italia perché viene da una cultura diversa: è vero, nei Paesi anglosassoni, il malato conosce esattamente l’infausta prognosi e quindi è in grado di dire: «I miei ultimi mesi voglio viverli così».
Qui occorre dire le cose indicibili. All’ospedale ti fanno solo la diagnosi ma poi si fermano lì… e cercano di dominare terapeuticamente il sintomo, fino a esaurire ogni tipo di possibilità clinica.
Questa è la filosofia della medicina tradizionale: attaccare la cellula malata sino a sconfiggerne la gravità. L'Hospice, invece, è un luogo contradditorio, perché abitato da donne e uomini che vi restano per un tempo limitato, due, tre mesi, a volte solo alcuni giorni; il più delle volte, vi trascorrono le ultime settimane, gli ultimi mesi della loro vita. La struttura, gestita da Annamaria Marzi e da Maria Grazia Solimè è nata per dire che la vita non è separabile dalla malattia e dalla morte, per dare alle persone la possibilità di vivere bene anche quando la vita è minacciata, persino in modo irreparabile. La ricerca del luogo “giusto” è durata alcuni anni, date le particolari esigenze a cui doveva rispondere. Infine si è concretizzata nel complesso architettonico della Madonna dell'Uliveto, a Montericco di Albinea, su un pendio vicino alla città.
Questa struttura davvero rara e particolare non è un ospedale e neanche un casa. Meno specialisti, meno apparecchi; più ascolto, più contatto, più tempo per il malato e per i suoi familiari. Nell'Hospice ci si sforza di dare l’idea della casa, con stanze tutte singole, ampie e da personalizzare con quadri, foto, oggetti da casa propria, oltre a un frigo bar per qualche dolcetto occasionale, un televisore ampio munito di dvd per poter guardare documentari o film che si sono amati particolarmente. Arredate in legno di ciliegio, hanno il letto elettro-articolato regolabile dal malato stesso. E ispirano da subito un calore accogliente e affettuoso, lontano dal freddo metallo delle strutture sanitarie obbligatoriamente conformi ai protocolli sanitari.
La cucina confeziona i pasti principali, ma ci sono due super cuochi addetti a eseguire le ricette di casa che ognuno porta con sé, se ancora il gusto del buon cibo persiste. La “sala della cultura” ha una biblioteca che spazia su letteratura, filosofia, psicologia, teologia. Nella sala musicale si possono ascoltare in cuffia gli autori preferiti, anche distesi in chaise longue. Poi ci sono i salottini per incontrare i propri amici, i nipoti e i parenti a cui spesso ci sono tante cose da dire. Tutto ciò può essere anche solo un periodo di sollievo per il malato e la famiglia e si può rientrare a casa o tornare anche più di una volta.
L’assistenza medica nella maggior parte dei casi continua a essere prestata dal medico di famiglia del paziente, mentre un team di medici formati e motivati alla filosofia dell’Hospice garantisce le guardie e l’assistenza a chi non può contare sul proprio medico curante. A chi prega e sente il bisogno di fede, alcuni sacerdoti assicurano anche l’assistenza spirituale.
L’invasività va attenuata al massimo, ad esempio una farfallina sottocute per più giorni permette la terapia senza flebo o punture. L’idea è quella di dare vita piena al malato, occorre che lui sappia che tutti, dal personale medico a quello infermieristico, dai volontari agli addetti ai lavori sono dalla sua parte. In genere si dialoga molto con i familiari che sono sempre coinvolti, a meno che non voglia diversamente il malato. Importante poi è il contatto terapeutico. Criterio guida: low tech, high touch. Nelle cure palliative di accompagnamento il contatto fisico è molto importante per trasmettere affetto, calore, vicinanza. Contenimento psicologico dalla paura e rassicurazione. Un’idea attorno alla quale è nata una nuova disciplina, l'“aptonomia”, secondo la quale la morte non è una sconfitta ma un evento naturale, un momento di grande valore. Non è più centrale il medico ma chi ha un relazione significativa con il paziente: l’obiettivo è migliorare la qualità della vita: il problema maggiore nelle cure palliative non è “fare “ma “non fare”.
Nella medicina tecnicizzata di oggi c’è una tendenza all’accanimento terapeutico che può finire per aprire la strada all’eutanasia e spesso si sono viste molte persone morire sotto il peso di autentici bombardamenti chemioterapici perché non si decidevano a lasciare l’ospedale. Il messaggio forte che ha dato Umberto Veronesi quando è venuto in visita è che tra accanimento terapeutico ed eutanasia c’è una terza via: l’accompagnamento e il sollievo della sofferenza.
La competenza del cuore che privilegia l’essere sul fare: qualche volta l’assistere è davvero lo “stare fermi accanto” dell’etimologia (ad-sisto). Si lascia spazio ai sentimenti che si possono manifestare – piangere, parlare coi familiari, esprimere ciò che si ha nel cuore da tempo ma per pudore non ci si è mai dati il permesso di esprimere. Quante riconciliazioni con fratelli rinnegati, figli fuggiti altrove, consorti sempre rimpiante e mai attivamente cercate per orgoglio, vergogna o semplicemente per incuria di sé e della propria interiorità.
La morte è un passo che si fa da soli, ma è importante arrivarci accompagnati: è una ricchezza enorme. La filosofia dell’Hospice è che non ci si può mai abituare alla morte. Qui si legge l’amore ben diversamente dalle immagini che offre il mondo del nostro tempo perché tutto qui ci parla di eternità e di una crescita a cui non è mai posta la parola fine.