I miei matti

La decisione improvvisa di Vittorino Andreoli di interrompere la sua attività nell’ospedale di Soave, nel momento in cui veniva riconosciuto come uno dei più validi psichiatri italiani, sorprese l’opinione pubblica e suscitò molti interrogativi. Oggi, a distanza di alcuni anni, Andreoli in una sorta di lunga confessione, pubblicata da Rizzoli col titolo I miei matti(1), entra nel merito di quel passo decisivo e, nel raccontare la sua lunga esperienza professionale, esplicita anche i motivi di fondo che lo indussero a lasciare. Tutte le volte che nella mia vita mi sono ritrovato in alto sono fuggito, forse ossessionato dall’idea del dramma che avrei vissuto cadendo da lassù… Non ho mai amato gli elogi e tanto meno l’esaltazione… Il ’99 era l’anno in cui venivo richiesto dappertutto. Come psichiatra, come esperto dalle televisioni, anche in ambito internazionale. Come criminologo dai magistrati. Ma c’era anche un motivo più profondo. Convinto che la normalità e la follia fossero il risultato di tre componenti: una di carattere biologico, una seconda legata alle esperienze vissute soprattutto nella fase infantile e una terza legata all’ambiente, Andreoli era entrato cosi dentro la vita dei suoi pazienti, nelle loro esperienze, da non riuscire più a distinguere in essi il malato: Sì, non riuscivo più a vedere davanti a me un malato, ma solo un uomo o una donna, dimensioni talmente enormi da far scomparire qualsiasi concetto di rotto e di malato… Non riuscivo più a dare alla follia una dimensione elementare, clinica, ma vedevo solo la storia di un uomo. Quarant’anni prima, nel 1959, quando, ancora studente, aveva messo piede per la prima volta in un manicomio, era convinto che avrebbe saputo, e ogni giorno cancellava dei dubbi. Dopo quarant’anni i dubbi aumentavano, tanto da definirsi lo psichiatra del dubbio.Inoltre alcuni dispositivi di legge lo avevano lasciato alquanto perplesso. Da una parte, aveva dimostrato, con il suo impegno quotidiano, che il manicomio non serve e che il territorio poteva essere la modalità per gestire la psichiatria e l’unico modo perché un uomo fosse aiutato a non diventare un matto: per questo si era adoperato senza sosta a creare comunità terapeutiche dello stato, cooperative di lavoro, ambulatori, centri sociali, gemellaggi culturali con i malati di mente. Tuttavia gli rimaneva un grande interrogativo: dove curare la follia pericolosa? Avvertiva, in alcuni casi, l’urgenza e la necessità di tenere ricoverato il malato più a lungo del tempo previsto o prevedibile dalle strutture del territorio. Ma la legge si rifiutava di ammettere l’esistenza della pericolosità. Come si fa, allora, a vivere all’interno di una disciplina che si vorrebbe chiamare scientifica, quando viene imposto di fare lo psichiatra mandando per strada dieciquindici potenziali killer, che avrebbero solo il diritto di essere curati?. A questa situazione, già di per sé drammatica, se ne aggiunse un’altra, altrettanto grave. Grazie ad una legge dello stato, i suoi collaboratori, diventando dirigenti di primo livello, godevano del diritto di gestire una parte del lavoro, di cui lui restava responsabile, senza più essere coordinati da lui. Responsabile quindi di una struttura senza più averne il controllo operativo. Di qui la sofferta decisione di morire come psichiatra, ma nello stesso tempo il desiderio di non disperdere quanto aveva intuito o compreso in quarant’anni accanto ai suoi matti; un patrimonio di esperienza che non poteva tenere solo per sé. Esiste il matto o esiste una relazione da matto, che in qualche modo rende matto? Il matto è un uomo o è un’esperienza? Sono domande a cui la ricerca non ha dato ancora una rispo-sta, e alle quali Andreoli, con umiltà, offre le sue riflessioni: La follia è un modo di essere in un luogo specifico, dentro una società, è una maniera di relazionarsi agli altri e quindi dipende anche dagli altri… Anche i geni incidono, ovviamente, però non esiste un gene che in maniera meccanicistica determini la schizofrenia. Esiste una disposizione-a, una disposizione che si attua solo nell’esperienza. È sua forte convinzione che per i malati mentali l’altro è fondamentale, così come è fondamentale nella vita delle persone normali. Lo è quando siamo bambini, ma continua ad esserlo nel corso della nostra esistenza. Il bisogno dell’altro dal punto di vista relazionale ha la stessa forza del bisogno di cibo, è imprescindibile. Allora come si può pensare a un folle isolato teoricamente da ogni legame? È una finzione… Non esiste il matto, esiste l’esperienza folle… Anch’io sarei potuto essere un matto, ed esserlo in una società in cui esistevano i manicomi, e vivendo quell’esperienza sarei potuto diventare più matto. Da giovane studente aveva avuto un solo obiettivo: studiare il cervello e trovare quello che nel cervello s’era rotto. Oggi egli può solo affermare che probabilmente la follia è un incontro tra un uomo e un altro uomo, tra un uomo e un ambiente. Un’esperienza di eccessivo autoritarismo, ad esempio, rende più timidi, porta ad avere paura di tutto, a essere sempre sull’attenti in attesa di ordini, quindi a svalutarsi e diventare depressi… Il binomio individuo- mondo rimane inscindibile, il matto è sempre matto dentro una realtà, in una relazione, e siccome la relazione è tra almeno due individui allora lo spazio del folle non è al suo interno, ma è nello spazio tra lui e l’altro. Ed aggiunge che per la sanità mentale del bambino, è fondamentale la relazione con la madre nei primi anni di vita. Particolarmente significativa ci sembra la conclusione a cui giunge Andreoli: Bisogna amare il matto, perché se non lo ami, non fai le osservazioni che servono a descriverlo veramente, a scoprirlo; quando credi già di sapere che cos’è, un matto non lo guardi più… Bisogna avere una grande modestia per fare lo psichiatra, tanti dubbi. Non volersi imporre, ma mettersi in gioco, senza autoritarismi. Per fare lo psichiatra devi sapere che puoi stare con il malato tutta la vita senza avere, nemmeno per un attimo, la sensazione di averlo migliorato. Sopportare le frustrazioni e le mancate gratificazioni come nessun altro. Anzi, amarle più delle gratificazioni. Sono riflessioni che aprono prospettive ampie nel campo della relazione, portandoci a guardare con più attenzione la cellula fondamentale della società che è il rapporto con ogni uomo, e a guardare la follia con più sensibilità e amore.

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