I miei amici del Bangladesh

Viaggiano dove c’è lavoro per loro. Cureranno le aiuole fioritissime del sultanato. Ma l’Europa ha ancora bisogno di loro
Bangladesh in Brunei

All’aeroporto di Kuala Lumpur, alla porta G2 del volo per Bandar Seri Begawa, capitale del Brunei, ci sono quasi esclusivamente lavoratori del Bangladesh. Li si riconosce subito per l’aria spersa, perché non hanno nessun bagaglio a mano, perché dormono e dormono ancora, occupando tre o quattro poltroncine della sala d’aspetto. Gli incaricati della Malaysia Airlines ci forniscono dei consueti formulari per lo sbarco, ma costato che i poveri lavoratori non sanno che cosa farne. Un paio di loro cominciano a fissarmi intensamente, quasi morbosamente, mentre sto compilando i miei formulari. Confesso di sentirmi un po’ a disagio, perché mi guardano sempre più intensamente. Finché, nell’istante stesso in cui finisco di riempire le mie caselle, mi chiedono di compilare anche le loro schede.

Abdal ha 32 anni, il passaporto immacolato e una grande paura negli occhi. Ahmad, invece, di anni ne ha quasi cinquanta ed ha il passaporto zeppo di visti, sostanzialmente arabi e in genere musulmani. Lavora dove trova l’occasione, ma non sa scrivere né leggere. E così diventiamo amici, e nell’aereo mi trasformo da giornalista in scrivano, o cancelliere. Un lavoro inconsueto, per me, ma che mi consente, appena un po’, di entrare nell’animo di questa gente così ricca di umanità. Meno di soldi, meno di cultura, ma che importa mai? Accanto a me è seduto Buluda (interpreto dalla sorta il nome che declina), che pare totalmente perso in un universo sconosciuto che non trova di meglio da fare che imitarmi mimeticamente in tutto e per tutto, a cominciare dal pasto. La hostess chiede: «Chicken or fish?». Rispondo: «Chicken». E lui: « Chicken». Dico: «Water» e lui ripete a sua volta: «Water». Dico ancora: «Red wine please», e lui ripete: «Red wine», con «please» annesso. Gli faccio allora: «Muslim?». E lui assente gioioso, gli ho rivolto la parola ancora una volta, un’elezione divina! Gli dico: «Wine? Are you sure?». E lui, schermendosi, quasi inorridito: «Wine? No wine!». E restituisce il bicchiere alla hostess che se la ride della grossa.

A Roma ho un amico del Bangladesh, Antonio, che fa il barista. Spesso vado nel bar dove lavora, e lui mi racconta qualcosa della sa vita. Ho seguito passo dopo passo il suo matrimonio e la nascita della sua figlia. Negli ultimi tempi mi diceva che i suoi concittadini ormai non hanno più come meta l’Italia, e più in genere l’Europa, preferendo i Paesi arabi del Golfo persico e i Paesi asiatici in grande sviluppo economico. Che il vento stia cambiando, anzi che sia già cambiato lo danno anche questi piccoli segni colti in giro per il mondo, tra i piccoli, tra i più poveri, quelli che in fondo per primi s’accorgono che le cose son cambiate, niente lavoro. Anche gli sbarchi dall’Africa settentrionale sono rallentati, non solo per questioni politiche, ma anche per la semplice ragione che altri sono i luoghi su cui si concentra l’interesse di chi cerca un lavoro per vivere meglio che in patria.

«Dobbiamo rassegnarci», mi dico compilando l’ennesimo formulario dei miei nuovi amici del Bangladesh. Dobbiamo capire che è tempo, imperativo, di cambiare il nostro modo di pensare l’economia e di considerare come inesauribili le risorse dell’Occidente. Il neo-liberalismo ci ha portato fortuna e ora, per le sue stesse logiche interne, ci sta voltando le spalle. Ma gli amici di Accra e dintorni spero che ritornino anche da noi, così ci aiuteranno a diventare più aperti e generosi, ma anche contribuiranno a pagare le nostre pensioni e il nostro sistema di assistenza pubblica. A condizione di accettare di distribuire meglio con loro le nostre ricchezze.
 

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