I media e le proteste egiziane
Alcune delle fonti di Città Nuova al Cairo hanno un appartamento accanto al club degli ufficiali della Guardia Repubblicana, teatro degli scontri di questi giorni e altri a poca distanza dal palazzo della presidenza (Itihedaya). Sono osservatori diretti di quanto la piazza sta vivendo e ci hanno spedito delle foto che li vedono festeggiare a fianco dell’esercito per la deposizione di Morsi. Eppure lo scenario di ebbrezza democratica in pochi giorni è diventato cupo e violento: 54 morti giacciono sull’asfalto e macchiano di sangue una rivoluzione iniziata pacificamente e sulla cui fine si addensano nubi scure.
Dalla festa al caos «Il caos e i disordini sono localizzati», ribadiscono. «Noi stessi abbiamo ballato e cantato con la guardia repubblicana chiamata a difendere il palazzo presidenziale. Questi spari sulla folla imputati a loro e all’esercito sono inspiegabili. L’esercito è stato molto prudente fino ad ora, non ha reagito alle provocazioni e anche alle prevaricazioni a cui ha assistito durante il governo Morsi. Ha atteso la presa di posizione del popolo e non ha agito per compiere un colpo di stato. La stampa estera usa toni esagerati».
L'esercito e Al Jazeera Eppure ieri i capi dell’esercito hanno convocato una conferenza stampa in cui mostravano dei video ripresi da telecamere fisse e da alcuni cameraman sul tetto degli edifici, dove si vedeva chiaramente la risposta armata dell’esercito alle provocazioni. Si contavano però anche morti tra i militari e non solo tra i civili, mentre al contempo veniva smascherato il doppio gioco di alcune emittenti televisive che hanno usato immagini provenienti dai combattimenti in Siria spacciandole per egiziane, e tra queste anche Al Jazeera, che è stata allontanata, durante il confronto giornalistico dai colleghi di altri canali egiziani presenti.
L’emittente finanziata dal Qatar è considerata in Medio Oriente il canale ufficiale dei Fratelli musulmani e gli egiziani, in generale non la reputano un mezzo di informazione indipendente. Fanno notizia in queste ore le dimissioni di un suo redattore centrale e di altri giornalisti che hanno annunciato in diretta di lasciare il programma, perché stanchi di seguire le direttive imposte alla direzione dal governo soprattutto sugli esiti della seconda rivoluzione a piazza Tahrir.
«Intanto la disinformazione, a cui purtroppo tanti media occidentali stanno dando credito – spiega una donna egiziana – continua ad insistere sull’uccisione di bambini nella piazza antistante il palazzo del governo. La sequenza di foto che mostrava piccole vittime morte negli scontri intercorsi tra esercito e i fratelli musulmani recavano in arabo la scritta con il luogo e la data del massacro: Siria, marzo 2013. E poi resta una domanda di fondo: cosa ci fanno dei bambini a quell’ora in una piazza armata, quando di solito non stanno mai in giro. Perché erano lì»?
I media egiziani sottotitolano in inglese I media egiziani, che hanno decine di canali (commerciali, privati, religiosi, statali), hanno deciso di passare alla controffensiva e i telegiornali da qualche giorno sono sottotitolati in inglese. Gli interrogativi sulla qualità dell’informazione permangono. «Per tre giorni tra venti e venticinque milioni di persone sono scese in piazza senza feriti o morti – spiega una giovane egiziana che ha partecipato ai cortei del 30 giugno, cosa sta succedendo adesso? Cosa sta armando la mano dei Fratelli musulmani e dell’esercito?».
Le nostre fonti raccontano di alcune immagini trasmesse dai canali, vicini a Morsi, dove si vedono in alcune città di confine del Sinai persone in preghiera attaccate dall’esercito: sequenze illusorie perché esperti balistici hanno visto che le traiettorie dei proiettili non erano orientate a colpire le persone. Eppure queste sequenze infiammano i seguaci dei Fratelli musulmani, appena trentamila, mentre nelle piazze egiziane, dal nord al sud, sono milioni a protestare pacificamente. «Ma su di loro è scesa una cappa di silenzio» – continua la nostra amica egiziana.
Il governo ad interim al lavoro I morti comunque ci sono e il dolore per le perdite è innegabile, anche se qualcuno comincia ad inneggiare ad un improprio martirio. Ma l’Egitto in questo momento ha bisogno di altro e di ritornare alle urne per una nuova prova democratica, così ha stabilito il presidente ad interim, Adly Mansour: si andrà al voto entro sei mesi. La luna di miele tra salafiti e Fratelli musulmani sembra finita. Le divergenze sulla conduzione della protesta e sull’indicazione di El Baradei come premier ad interim non hanno proprio avvicinato i due partiti,anzi. Si lavora febbrilmente per continuare il dialogo e l’apertura anche su leader meno spiccatamente laici che sappiano però ricomporre le diverse anime dell’Egitto post Mubarak, anche se il nobel per la pace è stato designato vice presidente con delega alle relazioni internazionali. Nuovo premier ad interim sarà l’economista Hazem el Beblawi che ha già offerto al partito del fratelli musulmani alcuni ministeri, ma per ora sembra abbiano rifiutato.
Ma non basta: il Paese chiede la riconciliazione. Uno dei comandanti militari ha chiesto perdono per gli scontri e il dottor Ahmed Al Tayeb sceicco di Al-Azhar, la più prestigiosa università dell'Islam sunnita, vuole un’inchiesta che accerti i fatti e i cui risultati dovranno essere distribuiti a tutti in modo da dar vita ad una commissione di riconciliazione che segni la fine delle violenze. Ha dichiarato poi che finché le violenze non finiranno si barricherà in casa a pregare.
I rappresentanti statunitensi alla Camera di commercio del Cairo hanno intanto preso un volo per Washington: vogliono spiegare personalmente quanto hanno visto accadere nel Paese e non vogliono che parlino per loro solo delle immagini e non sempre veritiere. Gli affari non possono troncarsi solo per degli allarmismi eccessivi.