I meccanismi dell’accountability
Per accountability, come abbiamo visto, si intendono meccanismi di domanda, argomentazione/giustificazione e controllo che, naturalmente, non sono riferibili esclusivamente all’ambito della politica. […]
Secondo lo studioso austriaco Schedler, si deve tener conto del fatto che, affinché vi sia un’effettiva relazione di accountability, i due estremi del rapporto, chi controlla e chi è controllato, chi limita e chi è limitato, non possono mai essere posti sullo stesso piano. Per quanto tale tesi possa risultare, senza dubbio, fondata e benché essa ci obblighi a riflettere sulla situazione concreta nella quale versano i nostri ordinamenti, tuttavia questo non ci esime dalla necessità di prevedere un sistema di checks and balances che contribuisca a mantenere in equilibrio le istituzioni democratiche dei nostri Paesi, tentando in questo modo di evitare, per quanto possibile, lo scivolamento verso il dispotismo, chiamato in causa poco sopra in relazione a Rousseau. Se non si potrà, dunque, parlare di equivalenza, dovremo, però, continuare a esprimerci in termini di reciproca autonomia e reciproco rispetto, così da non intaccare l’effettività dei meccanismi di “freno e contrappeso”.
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Quello che qui ci interessa maggiormente prendere in considerazione è la relazione “verticale” che regola i rapporti tra rappresentanti e rappresentati. A questo proposito Rousseau ci direbbe che «l’atto istitutivo del Governo non è affatto un contratto, ma una Legge; che i depositari del potere esecutivo non sono in alcun modo padroni del popolo, ma suoi funzionari; che il popolo può nominarli e destituirli quando vuole; che non si tratta assolutamente per loro di contrattare ma di obbedire; e che, assumendo le funzioni impostegli dallo Stato adempiono semplicemente al loro dovere di Cittadini». Sappiamo bene che non sono queste oggi le condizioni della rappresentanza in un ordinamento democratico e che se, come abbiamo detto, si vuole raggiungere un certo grado di stabilità e far sì che un governo possa agire in maniera efficace si dovrà garantire un qualche spazio di autonomia ai rappresentanti.
Dunque i meccanismi di accountability elettorale, che si inseriscono nel punto di mediazione tra effettività del potere e necessità del controllo, avranno, da questo punto di vista, un’importanza cruciale. Essi, come sostiene Pasquino (giocando molto sul significato del termine account), si articolano seguendo tre fasi principali:
1. Indagine: i candidati a ricoprire il ruolo di “rappresentanti”, a tutti i livelli, “prendono in conto” le richieste dei cittadini, alimentando una fase di ascolto e di proposta, che prevede un dialogo aperto e responsabile, volto a conoscere preferenze, interessi, umori e sentimenti dell’elettorato;
2. Scelte: una volta eletti, i rappresentanti sono chiamati a “tener conto” delle richieste che sono state loro avanzate e delle istanze provenienti dal territorio di riferimento; al tempo stesso, qualora si trovino nella condizione di dover prendere delle decisioni concernenti temi che non sono stati oggetto della campagna elettorale, essi possono tornare dai cittadini e avviare una nuova fase d’ascolto, oppure, se le circostanze richiedono la definizione rapida dei provvedimenti da assumere, debbono comunque cercare di “anticipare” preferenze, interessi, umori e sentimenti che sono in ogni caso chiamati a rappresentare;
3. Argomentazione/Giustificazione: al termine del mandato (ma anche durante lo svolgimento di esso, qualora intervengano particolari circostanze) i rappresentanti devono tornare di fronte ai cittadini a “rendere conto” di quanto è stato fatto, non fatto, o “malfatto” e a darne ragione. A questo punto il processo di accountability elettorale ricomincia dalla prima fase, nella quale, chiaramente, si pensa che l’elettorato “terrà conto” del comportamento dei rappresentanti in carica e deciderà, su quella base, se riconfermarli o meno.
La ragione per la quale ci siamo soffermati a lungo sulle definizioni e sulle distinzioni consiste anzitutto nel tentativo di evitare che l’accountability divenga, come afferma Mulgan, un ever-expanding concept, che cioè vi si faccia riferimento in modo retorico, utilizzandolo per corteggiare il pubblico di turno, senza tuttavia interessarsi dell’idea presa in se stessa e della risorsa che esso può costituire qualora se ne comprenda la reale portata. Per questo riteniamo che debba essere sottoposto a critica l’atteggiamento che Dubnick propone in Accountability as a Meta-Problem, testo nel quale lo studioso statunitense, dopo aver esaminato la natura “multiforme”, “polimorfica”, “sinonimica” e “contestuale” del termine, finisce per considerare l’accountability come il “meta-problema” della governance moderna, paragonandolo al problema del male e a quello della libertà, ovvero a quelle questioni che, pur essendo costantemente al centro dell’interesse della filosofia e della letteratura di diverso ambito, non possono però trovare una soluzione definitiva. Far questo significa confondere, di nuovo, i fondamenti e le implicazioni, la parte e il tutto.
Il problema della governance moderna e i conflitti sui quali ci siamo soffermati nel paragrafo precedente (relativi alla difficoltà nella quale inevitabilmente ci si imbatte tentando di conciliare potere e libertà) non possono essere ridotti allo studio dei meccanismi di domanda e controllo che sottendono all’idea di accountability, per quanto essi rientrino, senza dubbio, nell’ambito di una riflessione così condotta. Tornando a servirci dell’immagine proposta da Machiavelli, che ha fatto fin qui da guida alla nostra riflessione, gli “argini” che stiamo tentando di costruire non sono certo sufficienti a evitare che il livello delle acque s’accresca incredibilmente e che la Fortuna faccia il proprio corso: essi non servono, infatti, a impedire che si verifichi la piena, ma soltanto a limitare i danni e a gestire le conseguenze. Fuor di metafora, dunque, non si può pensare che basti parlare di accountability per risolvere il problema fondamentale della governance inerente alla relazione tra potere e libertà. Un’impostazione di questo tipo produrrà inevitabilmente risultati nulli, perché, com’è ovvio, un “meccanismo” non può risolvere una questione sostanziale, e tutto ciò farà sì, piuttosto, che il concetto di accountability finisca per essere considerato vuoto e retorico.
Lungi dal poter costituire la soluzione di tutto (e, dunque, come ammette lo stesso Dubnick, la soluzione di nulla), quello di accountability è infatti un concetto “modesto” e presuppone una certa opacità ineliminabile del potere. Per fare un esempio, se, in quanto forma di controllo, l’accountability sembra avere di mira l’assoluta trasparenza delle pratiche politiche, tuttavia il semplice fatto che si continui ad avvertirne la necessità presuppone una costitutiva mancanza di chiarezza; se non esistesse il pericolo della piena o se fossimo in grado di evitarla non avremmo alcun bisogno di argini.
Anna Ascani, Accountability, la virtù della politica democratica