I masnadieri di Verdi
Sono i masnadieri di Verdi, non dei registi. La precisazione è necessaria, in tempi in cui si affida la regia di un’opera a persone del teatro o del cinema che hanno scarsa esperienza e contatto con la lirica oppure mirano a darle una interpretazione personale per far emergere il proprio talento. Come se, nel caso a Roma, al Teatro dell’Opera, I Masnadieri non fossero di Verdi, ma di Massimo Popolizio, bravissimo attore, qui alla sua prima regia lirica.
Per fortuna, non ha esagerato, collocando l’opera dal secolo XVIII in un’atmosfera gotica da Trono di spade, con proiezioni di occhi, volti, nuvole. Però alcune scelte forse si potevano evitare, come il carrello mobile su cui dovevano arrampicarsi i cantanti-attori per prodursi in duetti elegiaci, donizettiani, molto belli e delicati. E dire che il cast era buono, a partire dal soprano Roberta Mantegna, voce belcantistica di pregio, al tenore Stefano Secco e al baritono – il cattivo del melodramma tragico in quattro atti – Artur Rucinsky, voce morbida, preziosa e bravo attore.
L’opera verdiana, infatti, tratta da Johann Christoph Friedrich von Schiller e data a Londra con successo nel 1847 -l’anno del primo Macbeth – per quanto imperfetta, contiene momenti di intensa bellezza che dimostrano la graduale e inarrestabile ascesa poetico-drammatica di Verdi. Dal preludio mesto con il violoncello solista nel primo atto, alle cabalette maestose e fiammeggianti, dal duetto Amalia-Francesco, al tremendo racconto del quarto atto in cui Francesco ha avuto la visione del Dies irae.
Sono quelle punte tragiche che Verdi ama, dal Macbeth al Don Carlo al Requiem, accompagnate dal calore di una melodia appassionata e amara. Che il Bussetano amasse Schiller è noto, e qui si avvicina al protoromanticismo del drammaturgo tedesco nella figura di Carlo che legge Plutarco, malvolentieri si aggrega ai briganti (ai quali Verdi dedica cori banali) ed è in conflitto col padre e soprattutto col geloso fratello Francesco.
I temi verdiani classici – gelosia, paternità – ci sono tutti, insieme all’infelicità amorosa e all’epilogo tragico. Come si diceva, alti e bassi nell’ispirazione, ma forse più i primi che i secondi. Peccato che l’opera mancasse da Roma dal 1972. L’edizione 2018 nel complesso è dignitosa, anche se la direzione scrupolosa di Roberto Abbado avrebbe abbisognato di maggior grinta e colore sanguigno. Verdi è Verdi.