I marmi esplodono luce
Visitare la spianata delle mosche è un'esperienza antropologica, teologica e anche politica
Ero già stato alla spianata delle moschee, o del Tempio, dipende dai punti di vista. Avevo già colto la straordinaria potenza evocativa, la bellezza estetica, la funambolica presenza araba, l’orgoglio inconfessato e inconfessabile dei musulmani palestinesi che occupano ancora quanto di più caro c’è nell’animo religioso e etnico degli ebrei. Non per niente qui ebbe inizio la seconda Intifada, allorché Ariel Sharon – il 28 settembre del 2000 – osò portare centinaia di poliziotti antisommossa israeliani nella spianata, dicendo che finalmente gli ebrei si riprendevano il luogo di culto a loro più caro, che apparteneva solo a loro e a nessun altro.
Avevo già visitato il Duomo della roccia e la Moschea al-Aqsa, ma non avevo potuto fotografarne gli interni. E non avevo mai avuto una guida come Muhammad, un sessantenne entusiasta che potrebbe essere un imam o un muftì, tanta è la passione che ci mette e la competenza che sciorina nel corso della lunga visita: cosa inusuale, cita le Scritture cristiane con esattezza, senza l’approssimazione tipica di tanti musulmani. Con Muhammad capisco ancora una volta che con gli arabi tutto è possibile (anche fotografare, anche visitare i luoghi più sacri), a condizione che il rapporto, la relazione sia tale nella sincerità e nel rispetto da generare fiducia e aprire tutte le porte. Questa è la chiave che, ne sono certo, in questa Terra Santa non è stata ancora provata. C’è sospetto invece di rispetto, prolifera il sospetto invece di lasciar spazio alla fiducia.
I marmi esplodono luce, le maioliche azzurre sposano il cielo, la cupola d’oro invita alla riconciliazione nel segno d’Abramo, fa l’unanimità. Donne, uomini, vecchi e bambini sono uniti dalla preghiera e dalla sensazione di liberazione che ogni musulmano prova dinanzi a Dio nella preghiera al Tempio. Eppure nei loro sguardi c’è tutto tranne che il sentimento della pace, c’è frustrazione e talvolta odio. Iddio sa. Un vecchio legge il Corano sui tappeti rossi e bianchi della moschea di al-Aqsa. Viene da Ramallah, ma ormai abita a Gerusalemme Est, perché suo figlio ha trovato lavoro come idraulico. Nelle sue poche parole in inglese che riesce a dire c’è tutto un popolo: «Allah mi ha fatto nascere, Allah mi ha portato alla città santa, Allah mi fa sperimentare l’impotenza, Allah mi prenderà con sé quanto prima». Ha lo sguardo umido. Mi abbraccia.