I magnifici anni Settanta

De Chirico, Burri, Boetti, Schifano, Clemente... L'elenco degli artisti da non perdere al Palazzo delle Esposizioni a Roma fino al 2 marzo è ancora lungo. Un bagno di vitalità, fantasia ed esuberanza, ma anche sofferenza e ricerca ossessiva di superare il limite e tendere all'immortalità
Anni 70

Erano davvero magnifici gli anni Settanta, per altro verso definiti gli "Anni di piombo” in Italia? Il Belpaese non era certo bello, con le minacce di guerra civile, le proteste, gli assassinii. Oggi è facile per i giovani che non c’erano idealizzare – o ideologizzare – il passato, che è sempre, per chi non conosce la storia, migliore del presente.

Eppure, quegli anni erano sotto un altro punto di vista, quello dell’arte, fecondi. Non tutto era ispirato, ovviamente; molto era ideologizzato, pensato, polemico tout court. Forse qualcosa era anche inutile.

Ma – e la splendida rassegna romana al Palazzo delle Esposizioni lo dimostra ampiamente – c’era vitalità, fantasia, esuberanza, voglia di nuovo. Era “un passaggio del Mar Rosso” in arte. Giorgio de Chirico se ne accorgeva: dipingeva nel ’73 una “Vita silente metafisica con busto di Minerva”, dove la dea si affaccia a una piazza di archi e di frutta. De Chirico riassumeva metafisicamente il passato italico che guarda il presente, sparso come la frutta in tante direzioni, polverizzato anche.

Le direzioni erano tante, forse anche troppe. Ma erano intelligenti, accattivanti esplorazioni del nuovo, del diverso. C’erano i meravigliosi Cretti, neri o bianchi, di Alberto Burri a dire la vibrazione tattile della materia; le composizioni “pensanti” di Jannis Kounellis, affascinanti viaggi spesso “senza titolo”, perché di titolo non ne avevano bisogno. A loro bastava l’essenza del rapporto tra artista e osservatore, per “creare” insieme l’arte.

Se poi Gino De Dominicis nel ’71 pensava alla “Immortalità” in un incrociarsi di linee perpendicolari – forse una croce, forse chissà cos’altro, perché ognuno ha la propria visione dell’immortalità –, Giulio Paolini nel ’75 componeva una “Triade” geometrica di spazi vuoti ma zeppi di una luce che diceva allo stesso tempo assenza e presenza. Suggestioni dunque dell’infinito, voglia di misurarlo, di possederlo, di essere oltre. Una voglia molto anni Settanta, di superare  il limite, la legge.

Così a Sandro Chia nel ’71 bastavano poche linee ed ecco “L’ombra e il suo doppio”, fascinosa evocazione umana, Luigi Ontani nel ’72 si identificava in Dante – un Dante senza naso aquilino… –, Alighiero Boetti andava ancora più avanti nei suoi “Cimenti dell’armonia e dell’invenzione” tra il ’69 e il ’71. Quella di Boetti è una poesia di grande bellezza, uno slancio negli spazi che sono pieni di vita, palpitanti di tinte tenui, trasparenze di luce. Boetti è un poeta dell’astrazione, si potrebbe, davanti alle sue opere, sciogliersi in versi d’amore.

Naturalmente, ci sono i provocatori per vocazione, come Schifano che firma quella “Fantasia del paziente naturale”, 1970, vera esplosione cromatica, apparentemente “schizzata”, in verità travolgente irradiazione di una psicologia sofferta che cerca il sole della vita nel gran cerchio giallo al centro…

L’elenco degli artisti è lungo, lunghissimo: sono decine. Ma non si può tacere di Francesco Clemente che nel ’75 dipinge “Le pazienze”, semplici quadrati – quadri – in variazioni coloristiche delicate, come è appunto la pazienza, il saper patire.

Quanta sofferenza c’è infatti in queste opere. Troppo facile definirle solo esperimenti, quando si tratta di ricerche, ossessive, di superare il limite, di dire nella storia una nuova parola. Cioè, ancora una volta, tendere all’immortalità, anche senza saperlo. Ma non è questo che l’arte voleva e vuole?

Roma, fino al 2 marzo (catalogo Palazzo delle Esposizioni).

 

 

 

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