I have a dream
Nulla s’improvvisa. Neanche Martin Luther King improvvisò il discorso “I have a dream”. Sebbene in effetti lo improvvisò: come viene raccontato, MLK era così preso dall’organizzazione della marcia, che 12 ore prima del suo discorso non aveva buttato giù neanche due righe, né le avevano buttate giù i due avvocati che lo aiutavano a scrivere i testi.
Ma per Martin Luther King parlare alla gente era cosa che aveva nel sangue. Che gli era cresciuta dentro, come un albero di quelli che nascono così, senza piantarli. Del resto il tipo della Fbi, John Edward Hoover, che aveva il compito di sorvegliarlo e che di certo non gli era un amico, comunicò in una nota al suo capo: «King sta una spanna sopra tutti gli altri leader dei negri messi assieme, quando si tratta di influenzare grandi masse di negri».
Il padre di Martin era un predicatore battista e lui aveva assorbito l’arte oratoria, che gli era diventata spontanea come respirar l’aria. Conosceva la forza dell’anafora, quella figura retorica che consiste nel ripetere in modo martellante alcune parole ad effetto all’inizio d’una frase, fino a farle entrare nelle teste di chi lo ascolta. Ripeté ben otto volte “I have a dream” nel corso del suo discorso, ogni volta condendo questo incipit con nuove immagini.
Aveva poi, MLK, un bagaglio da conferenziere così vasto, che gli permetteva di attingere alla sua esperienza come da una dispensa inesauribile, riciclando, riutilizzando, migliorando e contestualizzando, al volo, frasi e pensieri già elaborati e già detti. Così fece anche quella volta, il 28 agosto del 1963, 50 anni fa, al Lincoln Memorial di Washington, di fronte a 250 mila persone intervenute alla «Marcia per il lavoro e la libertà».
Salì sul palco, sedicesimo oratore dei diciotto intervenuti, con pochi appunti tratti dalla Bibbia, dal profeta Isaia, da Riccardo III di Shakespeare, e da Lincoln. Si narra che Mahalia Jackson, la celebre cantante nera che stava ai piedi del palco, prima che egli salisse gli urlò: «Parla loro del sogno, Martin». E MLK, che di fiuto ne aveva da vendere, non si lasciò scappare il suggerimento.
«I have a dream» risuonò dagli altoparlanti del Lincoln Memorial. E quelle parole, prima ancora di scaldare il cuore di quelli che stavano lì assiepati ad ascoltarlo, illuminarono il suo cuore. «Mi sentii finalmente libero», confidò poi. Sapeva che aveva fatto centro. Non sapeva che cinquant’anni dopo sarebbe stato seduto alla Casa Bianca un Presidente di colore. Ma sapeva che aveva rotto un meccanismo, svoltato pagina.
Ricordò nel suo discorso Lincoln: «i nostri padri fondarono una nuova nazione, dedicata al principio che tutti gli uomini sono creati uguali…». Era il momento di riscuotere quella cambiale, firmata tanti anni prima. Era il momento di rompere con una pratica che contraddiceva i valori che proclamava. La segregazione razziale, doveva terminare, in ogni sua forma.
E per far questo MLK istigava al metodo più combattivo di sempre, la nonviolenza. «Anche se affronteremo le difficoltà di oggi e di domani, io ho un sogno. E’ un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si solleverà e vivrà nel vero significato del suo credo».
Le TV e i giornali colsero la potenza mediatica di quella frase “I have a dream”. La diffusero ai quattro venti e il discorso di King come diffusione mediatica fu secondo solo all’elezione a Presidente di John Kennedy. Il quale guardava quella marcia dalla finestra della Casa Bianca: si era opposto ad essa perché temeva disordini.
Martin ebbe ragione: la situazione degli afroamericani negli USA cambiò radicalmente da allora. Certo c’è sempre da fare, da migliorare. La strada della realtà è sempre impervia e contrastante. Ma quel sogno non è rimasto nelle parole. È diventato storia.