I gatti lo sapranno
In genere gli scrittori di gialli, anche quelli grandi, raccontano, descrivono, disegnano i personaggi, cesellano i dialoghi, ricreano atmosfere, dipanano le loro trame più o meno intricate; magari sono geniali nel loro genere, come Georges Simenon. Però – ma non vorrei dire una eresia – forse non sono autori in senso alto, plenario. Il più delle volte non hanno una loro visione del mondo, della vita, non hanno messaggi, non si preoccupano di valori e di significati morali, filosofici o esistenziali, alla luce dei quali costruire e interpretare le situazioni e le vicende, pur appassionanti (quando lo sono), che hanno l’indiscusso e a volte eccelso talento di ideare. Qualche rara eccezione c’è. Gilbert Keith Chesterton, per esempio, un autore grande a 360 gradi che con le storie di Padre Brown ha scritto alcuni fra i gialli più belli e avvincenti del Novecento. Andando però oltre il giallo e rimanendo sé stesso, cioè con tutta la forza e l’originalità della sua visione umana e religiosa. Ebbene, pochi mesi fa in Italia è uscito alla chetichella, nella piena canicola estiva che distrae l’attenzione del pubblico e allenta i rapporti umano-sociali, un romanzo giallo alla Chesterton. L’autore è un esordiente (o quasi), Giovanni Ricciardi, romano doc, quarantatreenne, docente di latino e greco nei licei, pubblicista e collaboratore di giornali e riviste. Il libro ha un titolo – I gatti lo sapranno (Fazi Editore) – ispirato a un verso di Cesare Pavese. Ma il poeta piemontese non c’entra affatto con i contenuti o lo stile di Ricciardi, che ha scritto un giallo romano ambientato negli anni Duemila, fra le strade e le piazze dell’Esquilino, lo storico quartiere popolare dove vive e lavora. Nelle pagine del libro si respira in pieno l’atmosfera di via Merulana (Ricciardi rende omaggio pure a Gadda con questo nuovo pasticciaccio), di piazza Vittorio, di piazza Fanti col giardino e l’acquario, di S. Maria Maggiore, da cui parte la processione del Corpus Domini guidata dal papa, durante la quale avviene il delitto che è al centro della vicenda. I personaggi sono ruspanti, la gente che vedi ogni giorno nel rione: dalla vecchia gattara (la vittima dell’omicidio) al giornalaio sotto casa, dal barbone gola profonda alla maga imbrogliona, dai poliziotti bonari agli eterni fidanzati in bolletta, dall’avvocato colto ma infido al parroco di S. Eusebio, la chiesa di piazza Vittorio. E sullo sfondo il formicolìo dei cinesi e dei bangla, la fauna pittoresca degli immigrati che ormai sono maggioranza all’Esquilino. Ma l’indiscusso protagonista è il commissario, Ottavio Ponzetti, che non solo racconta in prima persona e dirige ovviamente le indagini, ma imprime il salto di qualità alla storia e al libro attraverso la sua vicenda che si sviluppa su due piani, professionale e familiare. Alla fine sarà la Provvidenza, la Grazia ad aiutare Ponzetti a sciogliere contemporaneamente le sue due imbrogliatissime matasse, il caso della gattara e la sua profonda crisi coniugale e familiare. Il giallo romano, il racconto realistico e colorito diventa nell’ultima parte romanzo teologico, senza gridi, senza enfasi, con sobrietà, con credibile naturalezza. Non a caso, nel libro vengono ricordati spesso I promessi sposi. Alla fine si cerca addirittura il sugo di tutta la storia (come nell’ultimo capitolo di Manzoni) e si parla di un matrimonio che non si sarebbe fatto, né allora, né mai. Più omaggio di così! Un’opera prima, insomma, che non sembra proprio tale, nello stile come nella tematica. Evidentemente i racconti pubblicati da Ricciardi su alcune riviste gli avevano già permesso di raggiungere una sicura maturità.