I fratelli cinesi uccisi a Prato

Sono circa 50mila gli immigrati cinesi che vivono e lavorano a Prato, nei capannoni affittati loro dagli italiani, che hanno - in molti casi - preferito chiudere le proprie aziende e lucrare su questi commerci. Un commento
Prato

Domenica 1 dicembre sono stati uccisi sette nostri fratelli che venivano dalla Cina, uccisi dall'indifferenza, dalla complicità silenziosa, dal primato del denaro sulla persona. Davvero la cultura dello scarto si è manifestata in tutta la sua potenza ed evidenza. Essi sono prima di tutto e soprattutto nostri fratelli.

Prato pone la questione di una cultura della fraternità che non dimentichi né scarti nessuno. Se esiste l’economia che uccide, come ha ricordato appena qualche giorno fa papa Francesco, è necessario costruire un'economia che generi la vita e dunque lo sviluppo per tutti. Non solo per alcuni.

Sono stato al macrolotto di Prato ieri sera. Una quantità sterminata di luci e di capannoni dove tutti lavorano, dove tutti vedono tutti. All’improvviso si esce da via Toscana e appare il capannone della morte. Ci sono i vigili del fuoco che continuano a controllare che l’incendio non riprenda, alcuni giornalisti e le telecamere delle televisioni. Arriva il sindaco di Prato a fare l’ennesima intervista e si vede un imponente covone di rifiuti semicarbonizzati. Qualche giovane cinese guarda a distanza. Pensavo alla donne cinesi uccise due anni fa in un sottopasso a Prato, per cui non fu fatto il lutto cittadino.

Il presidente Napolitano, rispondendo al presidente della Regione Enrico Rossi, che aveva chiesto con forza la costituzione di un tavolo di lavoro con il governo nazionale, si è espresso in questi termini: «Al di là di ogni polemica e di una pur obiettiva ricognizione delle cause che hanno reso possibile il determinarsi e il permanere di fenomeni abnormi, sollecito a mia volta un insieme di interventi concertati a livello nazionale, regionale e locale, per far emergere da una condizione di insostenibile illegalità e sfruttamento – senza porle irrimediabilmente in crisi – realtà produttive e occupazione che possano contribuire allo sviluppo economico toscano e italiano».

Ecco la saggezza della cultura della fraternità, che alimenta l’assunzione di colpa per quanto è accaduto. Nessuno può dire che non sapeva, perché tutto è visibile a tutti purché si voglia vedere. Nessuno può rivendicare di avere le carte in regola, altrimenti non ci sarebbe stata questa tragedia, questa «piccola Lampedusa», come ha scritto ieri su la Repubblica Adriano Sofri: neanche la grande Cina, che ha perduto sette suoi figli e nostri fratelli.

I cinquantamila fratelli cinesi che vivono a Prato, che lavorano nei capannoni affittati dagli italiani, che hanno preferito chiudere le loro aziende per lucrare in questa operazioni, hanno diritto di essere rispettati e riconosciuti con una politica che coinvolga la grande Cina, l’Europa, il governo italiano, il governo regionale e locale. Una politica non fatta di retorica, di parole televisive, ma di azioni incisive e coraggiose, frutto di una visione e non di piccoli e tragici interessi localistici.

Dentro la forza mite ed esigente della politica, è possibile unire tutti gli sforzi, da quelli dei magistrati a quelli dei sindacati, fino ai cittadini che vivono di questa presenza assolutamente decisiva per il territorio di Prato. L’abbandono dei nostri fratelli cinesi sarebbe la morte della città e tutti lo sanno.

Ai nostri fratelli cinesi, ma anche a noi, chiediamo di rispettare le leggi, di evitare forme di schiavitù, di accettare e accogliere quella cultura del lavoro che costruisce futuro senza uccidere.

Ecco la cultura della fraternità che davvero può salvare il presente e il futuro di questo singolare “distretto cinese” in Italia. Anche i grandi imprenditori del tessile vanno coinvolti in questa operazione di civiltà, che coinvolge il nostro rapporto con la Cina, da costruire non in ginocchio, ma in piedi, con la nostra dignità di persone, con la nostra civiltà dei diritti e della democrazia, con la nostra capacità di dialogo.

Questo ponte drammatico tra Cina e Italia è indispensabile per il futuro stesso dell’Europa, non può essere gestito dalle mafie, a prezzo di indicibili sofferenze umane, ma deve avere come fondamento il diritto al lavoro e allo sviluppo, secondo quella misura di civiltà che oggi a Prato è negata.

Ripartire dai sette nostri fratelli cinesi uccisi significa sconfiggere fuori e dentro di noi quella cultura dello scarto che oggi a Prato si è resa visibile in maniera imponente. Nessuno deve essere lasciato indietro, nessuno deve essere lasciato fuori. La sfida è grande, ma non impossibile.

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