I “Fiori di pace” tornano in Israele

A fine ottobre si è conclusa un' esperienza di 10 giorni in Italia per due gruppi di ebrei ed arabo-palestinesi israeliani. Il progetto ha voluto farli incontrare e discutere al fine di conoscere, ascoltare e provare a capire l'altro senza ritenerlo un nemico a priori. Abbiamo fatto un'intervista doppia a due ragazze che hanno preso parte a questo esperimento
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Aya è araba palestinese, Yaara è ebrea. Hanno entrambe 18 anni. Tutte e due sono cittadine israeliane. Si sono incontrate per la prima volta nel mese di ottobre, in Italia, dove hanno trascorso 10 giorni grazie a un progetto chiamato “Fiori di Pace”: un’occasione per condividere gli stessi spazi, le gioie e le fatiche. Il progetto, ormai alla 23esima edizione, nasce da un’iniziativa della rivista “Confronti” e dello psicologo e psicoterapeuta Mustafa Qossoqsi, con la significativa collaborazione dell’associazione “Figli d’Abramo”. Aya e Yaara hanno avuto modo di discutere degli argomenti più caldi che le dividono in Israele cercando di trovare nell’ascolto dell’altro la chiave per risolvere un conflitto che da decenni ferisce questi due popoli.

«Il progetto ci ha aperto la mente», dice Yaara. «E questo significa conoscere e ascoltare cosa pensano le persone che vivono insieme a noi, come i palestinesi arabi di cui praticamente non conosciamo nulla». «Il vostro Paese ci ha aiutato molto – racconta Aya -. Noi vorremmo che tutto il mondo – e specialmente l’Europa – capisse che siamo tutti legati l’un l’altro, anche perché ognuno ha una responsabilità nel conflitto. È importante, perciò, che tutti aiutino a ricercare il dialogo». Aya e Yaara hanno sentito parlare di “Fiori di Pace” a Nevé Shalom, «l’"Oasi di pace” in cui ebrei e arabi vivono insieme con gli stessi diritti» situato su una collina ai bordi della valle di Ayalon, alle porte di Gerusalemme. «I nostri workshop ricalcano quelli che si affrontano a Nevé Shalom: parità di diritti, lavoro, discriminazione, guerra, violenza, servizio militare», conclude Aya. Le abbiamo incontrate proponendo loro un’intervista doppia.

Cosa vi ha dato questa esperienza?
Aya: «Aver imparato ad ascoltare l’altra parte, cercando di capire e di accettare la loro opinione».
Yaara: «Se siamo riusciti a vivere in pace 10 giorni potremmo vivere insieme per sempre nello stesso territorio. Dobbiamo fare lo sforzo di ascoltare, accettarci, capirci. Abbiamo opinioni diverse, ma perché non averle?».

Quali sono le speranze per il futuro del conflitto?
Aya: «Ora la cosa più importante è vivere insieme pacificamente in Israele. Ma per noi palestinesi è anche importante avere indietro il nostro Stato».
Yaara: «Anch’io credo che ci dovrebbe essere uno Stato per i palestinesi. Loro hanno bisogno di un posto da chiamare casa, e noi anche. Servono due Stati. Dobbiamo raggiungere fin da ora, però, la parità dei diritti e una maggiore integrazione».

Cosa potete fare voi giovani quando tornate in Israele?
Aya: «Prima di tutto vorrei dire ai miei compagni di classe, agli amici e alla famiglia che noi dobbiamo sentire l’opinione dell’altro e comprenderla. Dobbiamo aprire la mente alle opinioni altrui senza rifiutarle a priori».
Yaara: «Anche solo riportare l’esperienza che ho vissuto può aprire gli occhi ai miei vicini e alla mia famiglia: le persone non conoscono il nostro bellissimo progetto. Dirò che ci deve essere più integrazione fra arabi ed ebrei e che i palestinesi sono uomini che hanno personalità e opinioni come noi. Infine, direi che avere delle occasioni di dialogo è veramente il miglior modo di capire l’altra parte ed arrivare a una conclusione del conflitto».

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