I due papi e gli ebrei

Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II hanno segnato una svolta nei rapporti (e nel riavvicinamento) fra le due fedi. Le testimonianze di David Rosen, presidente dell’American Jewish Committee, Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant’Egidio e Marco Roncalli, presidente della Fondazione Papa Giovanni XXIII di Bergamo.
papi santi
Gli ultimi giorni hanno visto le figure di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II scandagliate da diverse prospettive. Programmi televisivi, servizi, interviste, articoli, pubblicazioni hanno messo in evidenza aspetti noti e meno noti. C’è stata anche una corsa alla ricerca dell’inedito assoluto e la vita dei due pontefici probabilmente ne nasconde ancora molti.

 

Aspetto profetico della missione pastorale dei due papi è stato senza dubbio il loro atteggiamento verso persone di altre fedi. Soprattutto, riguardo a Giovanni Paolo II, questo aspetto è emerso a più riprese: da Assisi 1986 in poi il papa polacco ha fatto la storia della Chiesa e dell’umanità nel tessere rapporti di amicizia e apertura sincera con persone di diverse tradizioni. 

 

Meno si sa su questo, e meno si è detto al riguardo, in riferimento a Giovanni XXIII. Non si deve dimenticare, tuttavia, che proprio il papa bergamasco ebbe l’intuizione di convocare il Concilio dal quale uscì Nostra Aetate, il documento più breve fra quelli conciliari, ma, come ha avuto da dire un altro papa, Benedetto XVI, quello che, con Dignitatis Humanae, sulla libertà religiosa, ha avuto forse l’impatto più forte per il futuro della Chiesa cattolica. 

 

Entrambi i pontefici hanno, comunque, segnato una svolta nei rapporti fra cristiani ed ebrei: “Un grande patrimonio che aspetta di essere fatto ancora fruttare”, ha commentato il presidente della Comunità di Sant’Egidio Marco Impagliazzo, nell’introdurre un interessante convegno che ha inteso approfondire il ruolo avuto dai due nuovi santi nei rinnovati rapporti fra ebrei e cristiani. 

 

È indubbio che entrambi “hanno svolto un ruolo decisivo nel riavvicinamento tra le due fedi”; fu grazie ai loro gesti e ai loro insegnamenti, che i cattolici “hanno riscoperto le loro radici ebraiche”. Ovviamente i contesti storici e geografici hanno imposto una chiara differenza. Giovanni XXIII era nato nella cattolicissima provincia di Bergamo, dove non c’era una presenza ebraica se non minima. 

 

Woityla, invece, nato e cresciuto nell’altrettanto cattolicissima Polonia aveva vissuto accanto ad una comunità ebraica numerosa con un ruolo importante. Il futuro papa ebbe fra i suoi compagni di scuola ed amici diversi giovani ebrei. Fu su questa esperienza personale, segnata dalla coscienza del dramma della Shoah che si svolgeva non lontano dal suo paese, che Giovanni Paolo II fondò i suoi gesti futuri di apertura all’ebraismo. 

 

Per questo resta paradigmatica la sua visita al Tempio Maggiore di Roma nel corso della quale “esprime il legame incancellabile tra cristianesimo ed ebraismo” e “riconosce le sofferenze del popolo ebraico a causa dell’antisemitismo pure cattolico e della Shoah”. Muta anche il linguaggio. Giovanni Paolo II, infatti, chiama gli ebrei “fratelli maggiori”, un binomio che rivoluziona e cambia radicalmente altre definizioni che avevano dolorosamente segnato i secoli precedenti. A questo aggiunge anche il riconoscimento diplomatico dello Stato d’Israele nel 1993 e il “capolavoro” del viaggio in Terra Santa sette anni dopo. In quell’occasione, Giovanni Paolo II definì l’antisemitismo “un grande peccato contro l’umanità”.

 

Le intuizioni del papa polacco sono state confermate in tutta la loro lungimiranza e profondità dal rabbino David Rosen, presidente dell’American Jewish Committee, che ha sottolineato come “oggi per gli ebrei è impossibile definirsi senza una relazione con il loro Stato. E quindi, una volta superata la preoccupazione di Israele relativa all’atteggiamento della Chiesa su questi temi, il dialogo si può sviluppare più facilmente. Dialogo è infatti comprendersi l’un l’altro nel modo in cui l’altro comprende se stesso”. 

 

Nella sua geniale apertura Giovanni Paolo ha offerto gesti ed espressioni di grande efficacia ma, in un certo senso, anche di potenziale problematicità, ha messo in evidenza il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni. Un esempio fu la sua definizione di Auschwitz come del “Golgota della nostra epoca”, espressione di forte impatto emotivo sia pure, ovviamente, “problematica” per gli ebrei”. 

 

Pur nella morsa di queste contraddizioni, Di Segni ha concluso riconoscendo che “ci troviamo di fronte a processi epocali che hanno cambiato la storia dei nostri rapporti, le cose vanno viste nella giusta prospettiva storica senza diminuire l’importanza di questi gesti e il percorso che ci resta da fare. C’è ancora una montagna di durezza teologica che va scalata anche da parte nostra. Queste grandi personalità sono figlie del loro tempo: occorre saper navigare nelle difficoltà della storia e della teologia per capire che questi problemi si risolvono prima con i rapporti fra le persone, con l’amicizia e la fraternità”.

 

La giornata di studio ha visto anche altri interessanti interventi. Fra questi il cardinale Walter Kasper, ha messo in evidenza come “i rapporti di buona cooperazione e di stabile amicizia” che si sono stabiliti fra cristiani ed ebrei sono più importanti dei molti volumi di documenti pubblicati sul dialogo, ed il card. Koch ha tracciato una storia dei rapporti fra ebrei e cristiani a partire dal Concilio Vaticano II. 

 

Preziosa anche la testimonianza, assai ben documentata da molti inediti, di Marco Roncalli, pronipote del nuovo santo bergamasco e abile saggista che dal 2010 è presidente della Fondazione Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Il contributo dello studioso bergamasco è stato quello di mettere in evidenza come Giovanni XXIII, figlio del suo tempo e, dunque, nato e maturato in un contesto spesso influenzato dall’antisemitismo, abbia nel corso della vita compiuto passi imprevedibili nei confronti di ebrei e della comunità ebraica stessa. 

 

Fu proprio lui ad accogliere in Vaticano Jules Isaac, l’intellettuale francese superstite della Shoah (l’unico della sua famiglia) che invitò il neo-eletto pontefice a compire dei passi all’interno del mondo cattolico per evitare che in futuro si ripetessero tragedie come quella che aveva colpito il popolo ebraico. Giovanni XXIII affidò al Card. Bea il compito di realizzare un progetto. All’interno del Concilio nacque così Nostra Aetate, un documento che avrebbe cambiato la storia della Chiesa nei rapporti con fedeli di altre religioni, ma soprattutto con gli ebrei.

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