I Due Foscari alla Scala

Un’opera triste e appassionata, una musica verdiana notturna e dolente. Il grande affresco del cuore umano
i due foscari

Fa piacere osservare un giovane direttore conquistare via via tappe in profondità interpretativa, chiarezza di gesto, puntualizzazione di dettagli orchestrali, guida serena e sicura di un’orchestra come quella scaligera e di un cast di cantanti attori, giovani e affermati, da seguire dal podio nei minimi particolari. Il direttore in questione è Michele Mariotti, nato a Pesaro con il festival rossiniano, cresciuto col belcanto belliniano ed ora aperto al dramma di un Verdi, anno 1844, fosco e cupissimo.

 

Il vecchio doge Foscari è diviso tra dovere e amore paterno verso il figlio Jacopo ingiustamente condannato all’esilio ad opera del nemico Loredano. La tragedia è dunque politica e familiare. In essa irrompe la moglie di Jacopo, Lucrezia, figura virile e appassionata che non riesce ad evitare il dramma. Jacopo esiliato morrà, il doge sarà costretto ad abdicare e griderà angosciato “Ridatemi il figlio” con una di quelle frasi ascendenti e calde, disperatamente umane, tipiche di Verdi.

 

La partitura è corrusca fin dall’inizio col movimento serpeggiante del Consiglio dei Dieci (“silenzio… mistero”) in aria di congiura. Di luce solo un barlume, ma nonostante tutto si vorrebbe sperare: il duetto bellissimo del secondo atto “Speranza dolce ancora” tra Jacopo e Lucrezia è uno di quegli abbandoni verdiani alla piena del cuore che riscalda l’ambiente di questo dramma di lacrime e sangue, dove anche l’orchestra si tinge di morte e di pianto.

 

L’odio implacabile è il motore dell’azione, contrastato dall’amore coniugale e dalla resistenza del vecchio padre. Sembra trionfare alla fine, ma soprattutto trionfa il grido angosciato di Foscari che muore di crepacuore. L’amore paterno – topos ricorrente nel Bussetano – anche se squarciato, canta la sua tenace resistenza al male, anche se gli soccombe.

 

In un’opera tanto triste e appassionata, Anna Pirozzi come Lucrezia è svettante: una voce limpidissima, agile, controllata e resistente insieme al fervente Jacopo di Francesco Meli, capace di mezze voci molto belle. Luca Salsi ha dato anima, corpo e voce al doge, commosso e commovente.

 

Si è potuta gustare la musica verdiana notturna e dolente grazie al nuovo allestimento assai posato, in cui la regia e le scene semoventi l’una sull’altra di Alvis Hermanis hanno dato vita ad un ambiente veneziano più accennato che descritto, e a movimenti dei cantanti-attori e delle masse corali equilibrati, come in una sorta di sacra rappresentazione laica.

 

I tempi giusti – ora furenti ora rallentati –, i colori orchestrali sul cupo, da parte di Mariotti, permettono così di delineare il grande affresco del cuore umano nei personaggi essenziali del giovane Verdi. Si replica stasera.

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