I drammi famigliarI drammi famigliari di Williams
Il linguaggio di Tennesse Williams, tra realismo e naturalismo a forte valenza simbolica, ha sempre attinto i suoi motivi nella decadenza del Vecchio Sud di un’America esteriormente puritana ma corrotta, con delle ossessioni che sovente assumono aspetti patologici. Creatore di grandi ruoli femminili, Williams drammatizza i conflitti all’interno del nucleo familiare facendoli scaturire da delle impressioni. Sino a far affiorare verità spietate, diffondendo un senso di minaccia e di disagio. Due sono le opere del grande drammaturgo americano attualmente in scena, scomode entrambe, ma che evidenziano con rara efficacia le contraddizioni che albergano nell’uomo. Improvvisamente l’estate scorsa (produzione del Teatro Eliseo, a cura di Aldo Terlizzi e Fabio Battistini, da un’idea di Giuseppe Patroni Griffi) ruota attorno alla strana e terribile morte di Sebastian, di cui è stata testimone impotente la cugina Catherine, rimasta così sconvolta da dover essere rinchiusa in un istituto per malattie mentali. La zia Violet, vedova tutta dedita al culto del figlio – esteta inquieto ed egocentrico e dalle strane inclinazioni – anche dopo la sua scomparsa, cerca di influenzare un giovane neurochirurgo a porre fine con una lobotomia alle presunte allucinazioni della nipote, ritenute lesive della memoria del figlio. Utilizzando però il siero della verità, il medico costringe la famiglia riunita, e Violet per prima, a prendere atto che gli incubi di Catherine sono il resoconto veritiero dell’atroce morte. Attingendo alla tragedia greca – al mitico Penteo delle Baccanti, nemico del culto violento da esse praticato, che finirà sbranato – Williams costruisce un testo che è metafora di una concezione pessimistica dell’esistenza, vista come natura divorante l’individuo. Sulla scena che raffigura il giardino di una villa dalla lussureggiante flora subtropicale, Rossella Falk domina la prima parte dei due lunghi momenti rievocativi di Violet con un’interpretazione chiara, gravida di inquietudini, ombre e sottintesi che sfiorano una candida follia, cedendo la scena nella seconda parte a Laura Marinoni, una Catherine di indomita coscienza e istintività, che chiude l’opera in un crescendo drammatico. Protagonista de La gatta sul tetto che scotta, messa in scena da Francesco Tavassi, è un’appassionata Mariangela D’Abbraccio. È lei la gatta Maggie, giovane moglie disperatamente innamorata del marito, Brick, che invece, annegando un intimo dolore nell’alcol, la rifiuta ritenendola colpevole della morte del suo migliore amico. In una sera, all’annuncio della malattia mortale del ricco padre di lui, tutto deflagra per quelle verità che non si vogliono sentire. Emergeranno, in un intreccio di tematiche connesse, l’avidità del fratello maggiore e l’ipocrisia della consorte, la presunta omosessualità di Brick, i rancori e le insofferenze reciproche mai svelate. Anche qui covano menzogne, pesanti silenzi d’incomunicabilità, inconfessati segreti che determinano un mal di vivere diffuso. Lo scenografo Alessandro Chiti ha immaginato un interno borghese dal design moderno che, nei metallici scaffali girevoli, richiama una luminosa prigione nella quale si dibattono le coscienze. Accanto alla bella prova dell’introverso Brick di Paolo Giovannucci, e al fin troppo furioso padre di Luigi Diberti, c’è la madre di Isa Barsizza che con la sua disarmante e misurata ingenuità, sorda e cieca davanti ai contrasti anche estremi e provocatori, tenta di ricucire e inseguire un ideale di felicità famigliare. Nonostante tutto. Giuseppe Distefano All’Eliseo e al Quirino di Roma. In tournée.