I dolori di Elettra
Al Teatro dell'Opera di Roma va in scena il dramma che Richard Strauss e Hugo von Hofmannstal hanno tratto dalla tragedia di Sofocle
Gli dei ci sono o non ci sono? Se ci sono, sono davvero indifferenti ai nostri casi? Queste domande che Elettra, impazzita di dolore e di rabbia per l’uccisione del padre Agamennone da parte della madre Clitemnestra e dell’amante Egisto, si pone nella tragedia di Sofocle. Domande attuali, perchè di fronte alla morte e alla disperazione a cui si può cedere, l’interrogativo sulla presenza o meno della divinità, sulla giustizia, può farsi assillante.
Richard Strauss, insieme a Hugo von Hofmannsthal, ne ha tratto un dramma in un atto nel 1909, in pieno clima “secessionista.” L’atto unico è una sequenza dialogica tra Elettra, la sorella e la madre: personaggio, quest’ultimo, di crudeltà mentale, di rimorsi, di desiderio di pace che ricorda sotto certi aspetti la Lady del Macbeth scespiriano. Solo che in questo la Lady è sola, perché Macbeth è debolmente sottomesso a lei. Mentre qui in Strauss è Elettra la vincente, nella sua cupa rabbia, nel suo essere una reietta dal cielo e dalla terra, sbeffeggiata fino a farsi (o fingere di farsi) folle. Dov’è la verità, dove la giustizia? Oreste, il fratello creduto morto, tornerà e farà vendetta. Elettra può allora danzare una danza di morte e la vita finalmente ricominciare.
L’amore per l’orrido e il crudele, ma pure per il folle e l’estremo, la morbosità dei sentimenti spinta alla lucidità della pazzia sono elementi che Strauss inscena grazie ad un tessuto musicale – Wagner insegna ed è presente – raffinatissimo, a colori formidabili, con preziosità strumentali uniche e squarci tremendi del “tutti” dell’orchestra. Il canto delle protagoniste – questa è un’opera in realtà al femminile – è spezzato, con frequenti salti di tono in Elettra, più lineare nella sorella Crisotemide, oscuro e stridente in Clitemnestra. Volti e voci di donne, modi diversi di dire la femminilità. Strauss la esplora e la esplicita nelle sue componenti di esasperato furore o di esasperato timore.
Dirigere e mettere in scena un capolavoro sospeso tra simbolismo ed espressionismo come questo è un’impresa. Ma l’allestimento in coproduzione con il Festival di Salisburgo che l’Opera di Roma propone punta su due fronti: la direzione dell’ungherese Stefan Soltesz, uno specialista del genere, che ha il merito di evocare le zone d’ombra degli archi e degli ottoni gravi senza ispessirne il suono, mettendolo in felice contrasto con certe ascensioni di violini e silenzi in cui fagotti o oboi si spingono a illuminare musicalmente la scena. Compagnia di canto, non soffocata dalla preziosa orchestra straussiana, ed è un gran merito. L’Elettra potente di Eva Johansson, la Crisostemide pulita di Melanie Diener e la Clitemnestra cristallina di Felicity Palmer sono straordinarie.
L’altro fronte è l’allestimento. L’unica scena sghemba di Raimund Bauer ha visto una reggia-muraglia di cemento con finestre-buchi ingrigite da cui escono voci , suoni. Una rara luce laterale illumina o oscura il palcoscenico ripido. L’impressione è di sentimenti ossessivi, di prigioni dell’anima prima che del corpo. La vendetta non è forse una prigione della mente? La regia di Nikolaus Lehohoff sottolinea con i costumi anni venti-trenta l’aria feroce del dramma, cui solo alla fine giunge una porta di luce. Giustizia-vendetta è fatta. Elettra vi è morta. Valeva la pena? La domanda resta sempre attuale.
Roma, Teatro dell’Opera. Fino all’8/10